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AVVOCATI A BOLOGNA PER CAUSE EREDITARIE E IMPUGNAZIONE TESTAMENTO

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Il ricorso concerne la nullità ex art. 591 c.c. dei testamenti pubblici formati in omissis, il omissis e il omissis, rispettivamente dalle sorelle I. P. e L. P., decedute la prima il omissis e l’altra l’omissis, atti con i quali ciascuna di esse aveva disposto delle proprie sostanze in favore degli Istituti ricorrenti, con riserva di usufrutto generale vitalizio a favore dell’altra. Due controversie analoghe a quella odierna si sono chiuse: una con sentenza di questa Corte 12291/98, su cui si avrà modo di tornare, relativa alla nullità del testamento della sola I., che aveva pronunciato declaratoria di carenza di interesse degli odierni controricorrenti; l’altra con sentenza 15 gennaio 1999 della Corte d’appello di Genova, che ha annullato quella del tribunale per un difetto di procura.

Su iniziativa assunta con citazione del 16 gennaio 1998 dai cugini P. Lu. e V. E., la Corte di appello di Genova con la sentenza del 14 marzo 2008, qui impugnata, ha riformato la sentenza 10 agosto 2001 del locale tribunale; ha ritenuto che alla fine del omissis e già da tempo le anziane sorelle P, erano in stato di incapacità di intendere e di volere e ai sensi della norma citata ha disposto l’annullamento dei due testamenti pubblici. Inoltre la Corte ha dichiarato che le eredità si erano devolute per successione legittima in favore degli odierni controricorrenti; ha condannato gli eredi testamentari, – Istituto Diocesano per il sostentamento del Clero, Istituto delle Suore Nazarene e Provincia Italiana della Società delle missioni Africane – al rilascio dei beni ereditari, nonché al risarcimento dei danni per la indebita detenzione ed utilizzazione di essi.

riferimento agli artt. 1147 e 1148 c.c.; quest’ultimo fa obbligo al possessore di buona fede di rispondere verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia; nessun cenno v’è quindi all’obbligazione risarcitoria riconosciuta dalla Corte d’appello. Va aggiunto, quanto alla buona fede, che secondo l’art. 1147 c.c. “la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”. Questa disposizione è comunemente ritenuta portatrice di un principio di portata generale (Cass. 8258/97; 6648/00) e quindi è applicabile anche alla fattispecie di cui all’art. 535 c.c. Ne consegue che chi agisce per rivendicare i beni ereditari – eventualmente previo annullamento del testamento che ha chiamato all’eredità il possessore di buona fede – non può pretendere il risarcimento dei danni, ma soltanto i frutti indebitamente percepiti, nei limiti fissati dall’art. 1148 c.c. Nella specie non risulta (cfr. conclusioni degli appellanti in epigrafe della sentenza impugnata) che sia stata fatta valere la malafede degli enti oggi ricorrenti, né che la malafede di essi sia stato oggetto del contendere o di iniziativa probatoria volta a superare la presunzione vantata dagli eredi testamentari. Solo per tal via avrebbe avuto spazio, secondo parte della dottrina, l’opzione risarcitoria ex art. 2043 c.c., che è proposta in alternativa a quella che affida la tutela dell’erede vero, nei confronti dell’erede apparente in buona fede, al disposto dell’art. 2038 c.c.

Cassazione civile Sez. II, 3 marzo 2010, n. 5091

Svolgimento del processo

Il ricorso concerne la nullità ex art. 591 c.c. dei testamenti pubblici formati in omissis, il omissis e il omissis, rispettivamente dalle sorelle I. P. e L. P., decedute la prima il omissis e l’altra l’omissis, atti con i quali ciascuna di esse aveva disposto delle proprie sostanze in favore degli Istituti ricorrenti, con riserva di usufrutto generale vitalizio a favore dell’altra. Due controversie analoghe a quella odierna si sono chiuse: una con sentenza di questa Corte 12291/98, su cui si avrà modo di tornare, relativa alla nullità del testamento della sola I., che aveva pronunciato declaratoria di carenza di interesse degli odierni controricorrenti; l’altra con sentenza 15 gennaio 1999 della Corte d’appello di Genova, che ha annullato quella del tribunale per un difetto di procura.

Su iniziativa assunta con citazione del 16 gennaio 1998 dai cugini P. Lu. e V. E., la Corte di appello di Genova con la sentenza del 14 marzo 2008, qui impugnata, ha riformato la sentenza 10 agosto 2001 del locale tribunale; ha ritenuto che alla fine del omissis e già da tempo le anziane sorelle P, erano in stato di incapacità di intendere e di volere e ai sensi della norma citata ha disposto l’annullamento dei due testamenti pubblici. Inoltre la Corte ha dichiarato che le eredità si erano devolute per successione legittima in favore degli odierni controricorrenti; ha condannato gli eredi testamentari, – Istituto Diocesano per il sostentamento del Clero, Istituto delle Suore Nazarene e Provincia Italiana della Società delle missioni Africane – al rilascio dei beni ereditari, nonché al risarcimento dei danni per la indebita detenzione ed utilizzazione di essi.

Gli eredi testamentari hanno proposto ricorso per cassazione, al quale hanno resistito i signori P. Lu. e V. E.. Con procura notarile rilasciata il 14 settembre 2009, l’Istituto Diocesano per il sostentamento del Clero ha nominato nuovo difensore. Sono state depositate memorie ex art. 378 cpc nell’interesse di tutte le parti costituite. All’udienza del 24 settembre 2009, la Corte di Cassazione, richiamato l’art. 384 cpc e ritenuto di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, ha riservato la decisione, assegnando al pubblico ministero e alle parti un termine per il deposito in cancelleria di una memoria di osservazioni sulla medesima questione. Si è quindi riconvocata il 4 febbraio 2009.

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Motivi della decisione

1) Il testamento di I. P.

Preliminarmente va rilevata d’ufficio la questione relativa al giudicato formatosi sulla legittimazione ad agire dei P.-V. in ordine al testamento di I.. La questione è stata oggetto della sentenza di questa Sezione 04-12-1998, n. 12291, resa in contraddittorio tra gli stessi odierni contendenti (cfr. ricorso pag 2, controricorso pag. 32, memoria ex art. 278 cpc Istituto Diocesano pag. 5). Come è noto, a partire da Cass. SU n. 226/01 si afferma che l’esistenza di un giudicato esterno, è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa qualora essa emerga da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito. Quest’ultimo limite è stato superato dalla giurisprudenza successiva che, in primo luogo, facendo riferimento all’art. 372 cpc, ha ammesso la rilevabilità dell’eccezione anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata (SU 13916/06). In secondo luogo Cass. SU 24682/07 ha stabilito che: “Nel caso in cui il giudicato esterno si sia formato a seguito di una sentenza della Corte di cassazione, i poteri cognitivi del giudice di legittimità possono pervenire alla cognizione della precedente pronuncia anche mediante quell’attività d’istituto (relazioni preliminari ai ricorsi e massime ufficiali) che costituisce corredo della ricerca del collegio giudicante, in tal senso deponendo non solo il principio generale che impone di prevenire il contrasto tra giudicati ed il divieto del “ne bis in idem”, ma anche il rilievo secondo cui la conoscenza dei propri precedenti costituisce un dovere istituzionale della Corte, nell’adempimento della funzione nomofilattica di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario” (in senso analogo v. utilmente anche Cass. n. 67/2007; 1564/07; 2121/81). Pertanto, poiché detta sentenza è conosciuta da questo Collegio, sia grazie ai riferimenti specifici più volte inseriti negli atti difensivi, sia per la rilevanza in causa dei principi da essa affermati nella materia che ci occupa e riportati nella raccolta delle massime ufficiali della Corte, va valutata ai fini della decisione, tenendo conto delle deduzioni formulate dalle parti, che hanno depositato memoria ex art. 384 cpc.

Parte controricorrente ha distinto in tre paragrafi le argomentazioni svolte per sostenere l’insussistenza del giudicato esterno. Il primo e il terzo adducono a tal fine che la sentenza 12291/08 avrebbe carattere meramente processuale, perché avrebbe statuito sulla carenza di interesse degli eredi P.-V. quando era ancora in vita L. P., erede legittima di I.. Desumono ciò da talune espressioni usate dalla sentenza in ordine al carattere futuro ed eventuale dell’interesse azionato e dalla rilevanza del sopravenuto decesso di L. P., che avrebbe “radicalmente mutato la situazione di fatto sulla quale era imperniata la sentenza del tribunale di Genova del 1993”.

Tali rilievi sono smentiti dalla attenta e completa lettura della sentenza di questa Corte n. 12291/98. Essa è massimata nel senso che: “È inammissibile (per difetto di interesse) l’impugnazione del testamento per incapacità del testatore proposta, ex art. 591 c.c., da eredi legittimi (nella specie, cugini del de cuius) esclusi dall’ordine della successione legittima in conseguenza della esistenza in vita di altri eredi legittimi di grado poziore (nella specie, la sorella del testatore) che non abbiano, invece, impugnato la scheda testamentaria, poiché nessun concreto vantaggio potrebbe loro derivare dall’eventuale accoglimento dell’azione così proposta, essendo l’eredità destinata a devolversi, in tal caso, all’erede di grado pozione”.

In motivazione si apprende tuttavia non solo che la pronuncia è stata resa dopo la morte della seconda sorella P., ma che in apposito motivo di ricorso i P.-V. avevano fatto valere tale circostanza. La sentenza così reca in proposito: “È appena il caso, poi, di aggiungere che la circostanza, dedotta col secondo motivo, di essere deceduta, nelle more del presente giudizio, L. P. non ha in alcun modo fatto sì che sopravvenisse nei P.-V. l’interesse, originariamente mancante, all’annullamento del testamento di I. M. P., essendo chiaro che la situazione si era ormai cristallizzata al momento della morte di costei, quando la sorella L. era ancora vivente ed era la sola a potersi giovare di quell’annullamento perché soltanto nel suo patrimonio, in caso di apertura della successione legittima, sarebbero potuti confluire i beni della defunta”. Pertanto secondo Cass. 12291/08 la Corte genovese correttamente è giunta “ad escludere l’esperibilità dell’azione di annullamento da parte degli attuali ricorrenti” (odierni controricorrenti), affermando che essi “nessun concreto vantaggio avrebbero potuto ricevere dall’annullamento del testamento pubblico redatto dalla defunta a favore dei convenuti istituti religiosi, poiché in tal caso l’eredità di costei si sarebbe devoluta alla sorella superstite e giammai ai cugini”.

La decisione è stata resa tenendo presenti le medesime circostanze di fatto della controversia odierna, e quindi anche l’elemento inizialmente non dedotto, ma sopravvenuto e dedotto in corso di causa, costituito dalla morte della seconda sorella. Questo evento, giunto senza che la potenziale unica erede legittima di I. avesse fatto valere la nullità del testamento di costei, ha fatto sì, per espressa statuizione della sentenza del 1998, che la situazione diventasse intangibile, sancendo i diritti ereditari degli eredi testamentari. Lungi dall’avere carattere meramente processuale, la decisione ha quindi statuito sull’inesistenza del diritto fatto valere in giudizio dagli attori P.-V. con riferimento al primo testamento.

Al punto secondo della memoria ex art. 384, parte controricorrente sostiene che la questione sollevata d’ufficio da questo Collegio sia preclusa dal giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnazione della sentenza non definitiva resa il 10 agosto 1991 dal tribunale di Genova, nella prima fase dell’odierno giudizio. L’esame di tale atto (facente parte del fascicolo d’ufficio, nonché prodotto in causa dai deducenti), consentito alla Corte in relazione alla natura dell’eccezione, esclude la fondatezza del rilievo. Il tribunale di Genova ha preso infatti in esame – e respinto – non l’eccezione di giudicato esterno (dipendente dalla sentenza n. 12291 del 4 dicembre 98), ma l’eccezione di litispendenza formulata dai convenuti Istituti in relazione alla pendenza in Cassazione del primo giudizio all’epoca in cui (15/19 gennaio 1998) era stato introdotto quello che giunge ora alla decisione in sede di legittimità. Ha respinto l’eccezione di litispendenza sulla considerazione dei diversi gradi di giudizio raggiunti dalle due liti; ha aggiunto che alla data di precisazione delle conclusioni di questa lite davanti al tribunale, 31 ottobre 2000, “il giudizio di cassazione si era ormai concluso e si era formato il giudicato esterno sulla pronuncia di carenza di legittimazione attiva degli odierni attori”. Ha osservato che “eccepire la litispendenza non equivale ad eccepire il giudicato” e che pertanto il tribunale stesso non poteva interpretare “l’avanzata eccezione di litispendenza come un’eccezione di giudicato esterno”, né poteva sollevare quest’ultima d’ufficio, in forza della giurisprudenza allora dominante sul carattere di eccezione in senso proprio a quel tempo riconosciutale dalla giurisprudenza. Emerge quindi dall’inequivocabile contenuto della sentenza del tribunale di Genova che nell’odierno giudizio non vi è stata alcuna decisione di primo grado sull’eccezione di giudicato esterno, che non era stata (né poteva esserlo, attesa la tempistica maturata) sollevata dai convenuti, né rilevata d’ufficio. Parte controricorrente affida l’odierno rilievo ad un’argomentazione dichiaratamente svolta dal Collegio “ad abundantiam”, con la quale peraltro errando in punto di fatto – i giudici genovesi avevano aggiunto che i limiti del giudicato relativo alla decisione sulla carenza di legittimazione degli attori P.-V. erano segnati dall’esistenza in vita di P. I.” (rectius L.) nelle more deceduta. Avevano proseguito quindi l’esame di altra eccezione preliminare e rimesso la causa sul ruolo per il corso istruttorio ex art. 184 cpc.

Orbene, è del tutto evidente non solo dal tenore letterale – con l’uso dell’espressione “ad abundantiam” -, ma soprattutto da quello logico, che i giudici del tribunale non hanno dato al periodo testé ricordato dignità di autonoma ratio decidendi, giacché hanno a chiare note evidenziato che non era compito loro giudicare su un’eccezione (quella di giudicato esterno) che era diversa da quella proposta, non era stata autonomamente sollevata e non poteva essere rilevata d’ufficio. Non è pensabile neppure che si trattasse di un posterius logico delle affermazioni principali, destinato a divenire operativo nelle ipotesi di erroneità delle tre ragioni della statuizione relativa all’eccezione esaminata. L’argomentazione, proprio perché dichiaratamente superflua, valeva probabilmente a spiegare per qual motivo l’eccezione di giudicato non fosse stata eccepita da alcuno. Ne consegue che avverso tale affermazione non era necessario proporre impugnazione per evitarne il passaggio in giudicato. Vale in proposito ricordare che è inammissibile in sede di gravame la doglianza che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundantiam” e, pertanto, non costituente una “ratio decidendi” della medesima. Infatti, un’affermazione siffatta, che non abbia esercitato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di impugnazione, per difetto di interesse (v. Cass. 13068/07; 5555/81). Detto principio è coerente con l’insegnamento delle Sezioni Unite (SU 3840/07), che di recente hanno puntualizzato che “Qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare; conseguentemente è inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata.”.

Discende da quanto esposto che la decisione resa nel dicembre 1998 con la sentenza n. 12291 costituisce giudicato tra le stesse parti della causa qui discussa, iscritta al ruolo della Corte con il n. 15531/08, ed impedisce che si possa pronunciare una seconda volta su una questione – l’annullamento ex art. 591 c.c. del testamento pubblico di I. P. – che è stata definita con sentenza di questa Corte. La sentenza impugnata deve essere cassata nella parte che concerne il testamento di I. P., dichiarando il difetto di legittimazione dei signori P. Lu. e V. E.. Restano quindi assorbiti sia i rilievi concernenti proprio la carenza di legittimazione attiva degli attori, svolti nella prima parte del ricorso, dedicata al testamento redatto da I. P., sia i due motivi svolti per censurare la sentenza d’appello del 14 marzo 2008 in ordine a detto testamento.

2) Il testamento di L. P.

Il primo motivo di questa seconda parte del ricorso lamenta omessa motivazione circa un fatto controverso, che viene identificato, con evidenziazione in grassetto a pag. 18, nell’aver omesso di spiegare perché le prove e i documenti prodotti dagli attori non si limitassero a provare l’esistenza di una malattia della testatrice, ma attestassero lo stato di incapacità di intendere e di volere derivante da tale malattia. Parte ricorrente sembra lamentare che non vi sia stata una elaborazione riassuntiva degli elementi istruttori, che la Corte territoriale ha considerato non solo rilevanti al fine voluto da attori, ma autonomamente eloquenti. Lamenta quindi che siano stati sottovalutati elementi che militavano in senso contrario, quali 1) l’interrogatorio reso da L. P. nel corso del procedimento di interdizione; 2) le risultanze del di lei consulente di parte dott. B.; 3) i riferimenti manualistici descrittivi della malattia, che potevano farla ritenere compatibile con la capacità di intendere e di volere; 4) le dichiarazioni del legale che era stato nominato curatore del patrimonio e aveva dichiarato di ritenere che i molti beni immobili (9 appartamenti, 7 autorimesse, 28 terreni) erano stati amministrati dalle due sorelle.

La censura è infondata. Non si può tralasciare che l’indicazione del fatto controverso ex art. 366 bis cpc risulta sommaria e incompleta. È infatti richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. 4556/09). Secondo le Sezioni Unite si deve rinvenire nel motivo un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. 20603/07). Questa formulazione non è stata pienamente rispettata e ne è riprova la distinzione del motivo in più parti, numerate con le prime 5 lettere dell’alfabeto, senza che il loro contenuto sia stato sintetizzato. Ma è da rilevare anche il difetto di autosufficienza del motivo a proposito della testimonianza di cui si sollecita nuova valutazione, non riportata integralmente e testualmente, impedendo così alla Corte di valutarne la decisività, prontamente messa in dubbio in controricorso, con il ricordare che il teste non aveva mai conosciuto le due sorelle P..

La censura è comunque priva di pregio. La sentenza impugnata, lungi dall’essere carente di motivazione, ha invece scrupolosamente riportato gli elementi istruttori valorizzati e in particolare le sei testimonianze che il tribunale non aveva “tenuto in alcuna considerazione”. Ha poi analizzato altri cinque “elementi istruttori ricavabili” dalla procedura di interdizione; ha discusso di altri documenti disponibili; ha evidenziato e specificamente criticato le conclusioni della sentenza di primo grado; ha tenuto conto di tempi, modi e contenuto dei testamenti, spiegando per qual motivo era stata raggiunta la convinzione che le sorelle erano state manipolate, non essendo in condizione di autodeterminarsi. La motivazione non si è quindi fermata alla rassegna di elementi, peraltro di per sé incisivi, come ritenuto dai giudici d’appello, relativi alla entità della malattia, ma ha vagliato tutti i fattori sufficienti a dar conto della incapacità di intendere e di volere della testatrice. Né va trascurato che proprio di questa seconda sorella si hanno i riscontri clinici più obbiettivi e prolungati, dovuti alla consulenza d’ufficio del dr. M., puntualmente valorizzata in sentenza.

La critica dei ricorrenti, oltre a non essere integralmente formulata secondo i canoni processuali di cui all’art. 366 bis, si risolve in una inammissibile richiesta di nuova valutazione del merito della lite. Ma i vizi della motivazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (Cass. 6064/08; 18709/07).

Il secondo motivo di ricorso (numerato con il n. 3), che denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 591 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3, è inammissibile. Si conclude con il seguente quesito: “se è necessario e sufficiente ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova di cui all’art. 591 c.c. 1 comma n. 3, la diagnosi di malattia mentale del de cuius effettuata alcuni mesi dopo la redazione del testamento.”. Va in primo luogo rilevato che si tratta di quesito che non corrisponde a quanto ritenuto dalla sentenza, che, come si è detto, non si è limitata ad accertare uno stato patologico di L. P. successivo al testamento, ma ha tenuto conto di tutti gli elementi utili per arrivare ad affermare, come ha fatto, che L. P. era incapace di intendere e di volere e che la volontà testamentaria non si era espressa durante un lucido intervallo. Il quesito (e conseguentemente tutto il motivo) è quindi inappropriato, perché ipotizza che la sentenza abbia regolato la fattispecie in modo diverso da quello rilevabile dall’atto impugnato.

Non migliore è la sorte del terzo motivo (numerato con il n. 4), che si duole della violazione delle medesime norme sotto altro profilo. I “due” quesiti che lo concludono, che si integrano e si completano – e dunque possono essere unitariamente intesi (Cass. 5733/08; 26737/08) – recano lo stesso difetto del precedente: ipotizzano infatti che la sentenza abbia ritenuto sufficiente ai fini della nullità ex art. 591 c.c. che il testatore fosse affetto da malattia mentale (prima parte), oppure che indebitamente il giudice abbia considerato rilevanti a questo fine soltanto l’indagine su fobie e stati d’animo derivanti da malattia mentale. In tal modo negano senza fondamento la completezza della motivazione impugnata, la efficacia probatoria, necessariamente intrecciata, delle prove e degli argomenti di prova utilizzati dal giudice d’appello, la coerenza logica di essi, invero ineccepibile, tale da impedire il sindacato di questa Corte.

Il motivo, come il precedente, non riesce a cogliere una violazione della norma sostanziale che regola la materia, ma si risolve nella denuncia di un vizio di motivazione, invocando una lettura delle risultanze disponibili di segno contrario a quello motivatamente prescelto dalla Corte territoriale. Invano viene evidenziato che l’avversione covata dalle sorelle P. nei confronti dei congiunti deve essere rispettata, perché corrispondente alla loro “coscienza e volontà”. La riconosciuta incapacità di intendere e di volere delle due testatrici al momento della redazione dell’atto inficia il testamento in esame a prescindere dal contenuto di esso e dalla sua corrispondenza a un sentire di L. P. risalente a epoca anteriore allo svilupparsi della compromissione delle sue facoltà.

Il quarto motivo (numerato correttamente), che si riferisce come gli altri all’art. 2697 c.c. e all’art. 591 c.c., individua, diversamente dai precedenti, una violazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio presidiati dalla prima norma citata, ma ancora una volta lo fa sul presupposto di una lettura non veritiera della sentenza impugnata. Formula il seguente quesito: “se è onere della prova dei convenuti nel giudizio di impugnazione di un testamento per incapacità dimostrare la non incapacità di agire del soggetto all’atto della redazione del testamento”. Si tratta di quesito sostanzialmente astratto e retorico, essendo pacifico (v. Cass. 15480/01) che è onere di chi assume che il testatore sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere. Ed è altrettanto evidente che la Corte d’appello non ha rovesciato tale regola, ma ha solo posto in evidenza come il tribunale – la cui decisione ha capovolto – non avesse fornito alcuna motivazione degli elementi che lo avevano indotto a escludere che la conclamata malattia delle sorelle avesse irreparabilmente alterato la loro capacità di intendere e di volere. Trattasi di un indispensabile passaggio motivazionale, volto a giustificare la superfluità di specifiche confutazioni sul punto; ma la Corte territoriale, come più volte sottolineato, non si è fermata qui. Essa ha infatti specificamente enucleato gli elementi che la inducevano a una diversa lettura e ha anche attentamente criticato, rivelandone la inconsistenza, i pochi elementi che astrattamente potevano portare a valutazione diversa, in particolare soffermandosi sulla redazione del testamento in forma di atto pubblico, motivatamente ritenuta inconferente. Conforme ai principi normativi vigenti è poi la affermazione, peraltro rimasta implicita in sentenza, che è compito di chi vuole avvalersi del testamento (e dunque dei convenuti) dimostrare che esso fu redatto in un momento di lucido intervallo (così Cass. 8079/05; 9508/05; 26002/08; 13630/09).

3) Il risarcimento dei danni.

Diversa soluzione merita invece, relativamente al testamento di L. P., il quinto motivo del ricorso. L’ultimo inciso della motivazione della sentenza impugnata, dopo aver ordinato ai convenuti il rilascio di tutti i beni ereditari, li ha condannati “al risarcimento dei danni per la indebita detenzione ed utilizzazione dei beni ereditari, danni che, secondo la specifica richiesta degli appellanti, vanno liquidati in separato giudizio.”. I ricorrenti censurano questa statuizione per violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 1148 c.c., nonché per omessa motivazione. Il quesito, che, attesa la problematica e la specificità, ha carattere autoindividuante, mira a far affermare che la gestione dei beni ereditari da di chi è designato erede per testamento pubblico non può essere qualificata come indebita detenzione, trattandosi di possesso di buona fede.

Il motivo è fondato, perché la sentenza, con apodittica affermazione, che è totalmente priva di motivazione, ha ritenuto che il possesso dei beni ereditari da parte dell’erede chiamato in forza di testamento successivamente dichiarato nullo comporti l’obbligo del risarcimento dei danni. Per contro, nel capo IX del titolo primo del libro delle successioni, destinato alla petizione di eredità, è disciplinata la possibilità dell’erede di agire contro chi possiede i beni ereditari a titolo di erede (che corrisponde al caso in esame, art. 533 c.c.) o contro i suoi aventi causa (art. 534). La norma successiva stabilisce che le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni.

Occorre quindi far riferimento agli artt. 1147 e 1148 c.c.; quest’ultimo fa obbligo al possessore di buona fede di rispondere verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia; nessun cenno v’è quindi all’obbligazione risarcitoria riconosciuta dalla Corte d’appello. Va aggiunto, quanto alla buona fede, che secondo l’art. 1147 c.c. “la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”. Questa disposizione è comunemente ritenuta portatrice di un principio di portata generale (Cass. 8258/97; 6648/00) e quindi è applicabile anche alla fattispecie di cui all’art. 535 c.c. Ne consegue che chi agisce per rivendicare i beni ereditari – eventualmente previo annullamento del testamento che ha chiamato all’eredità il possessore di buona fede – non può pretendere il risarcimento dei danni, ma soltanto i frutti indebitamente percepiti, nei limiti fissati dall’art. 1148 c.c. Nella specie non risulta (cfr. conclusioni degli appellanti in epigrafe della sentenza impugnata) che sia stata fatta valere la malafede degli enti oggi ricorrenti, né che la malafede di essi sia stato oggetto del contendere o di iniziativa probatoria volta a superare la presunzione vantata dagli eredi testamentari. Solo per tal via avrebbe avuto spazio, secondo parte della dottrina, l’opzione risarcitoria ex art. 2043 c.c., che è proposta in alternativa a quella che affida la tutela dell’erede vero, nei confronti dell’erede apparente in buona fede, al disposto dell’art. 2038 c.c.

La decisione della Corte d’appello presta quindi il fianco alla censura riassunta nel quesito in esame, poiché essa, dovendo presumere la buona fede degli eredi testamentari che si erano immessi nel possesso dei beni ereditari, non poteva condannarli al risarcimento del danno per indebita detenzione e utilizzazione dei beni ereditari quale effetto automatico della declaratoria di nullità del testamento. Resta per conseguenza assorbita la censura relativa all’onere della prova sul risarcimento dei danni, dei quali non v’è ora materia per discutere.

L’accoglimento del motivo comporta la cassazione della pronuncia di condanna dei ricorrenti al risarcimento dei danni. Mancando ogni deduzione in ordine al possesso in malafede dei beni ereditari, non è necessario alcun ulteriore accertamento di fatto in ordine alla domanda, sicché la domanda può essere respinta da questa Corte decidendo nel merito.

L’alterno esito dei giudizi di primo e secondo grado e la cassazione della sentenza impugnata con riferimento a uno dei due testamenti oggetto di causa giustificano l’integrale compensazione delle spese di ogni grado.

P.Q.M.

La Corte, decidendo sul ricorso, così provvede: A) Quanto al testamento di I. P., cassa senza rinvio la sentenza impugnata e dichiara il difetto di legittimazione dei signori P. Lu. e V. E.. B) quanto al testamento di L. P., rigetta i primi quattro motivi del ricorso principale; accoglie il quinto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito rigetta la domanda di risarcimento danni proposta dai P.-V.. Compensa le spese di tutti i gradi di giudizio.

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