Vai al contenuto
Home > CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

Sei stato
vittima di un
caso di Malasanità?

AFFRETTATI VELOCE  SUBITO URGENTE 051 6447838

AVVOCATO ESPERTO 

OCCORRE SUBITO L’INTERVENTO DI UN AVVOCATO ESPERTO ADESSO

CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

CHIAMA L’AVVOCATO ESPERTO SERGIO ARMAROLI SUBITO

CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

NON TI RISARCIRANNO S ENON CHIEDI I TUOI DANNI

Sei vittima di MALASANITÀ

Ecco alcuni esempi di errori sanitari frequenti:

  • Sei vittima di una diagnosi errata
  • Sei vittima di un ritardo nella diagnosi (grazie al quale si sono generate complicazioni nelle condizioni di salute)
  • Sei vittima di un’omissione sugli esami da eseguire 
(che avrebbero permesso di chiarire le condizioni di salute)
  • Sei vittima di un intervento chirurgico eseguito in modo errato
  • Una errata gestione delle cure successive 
ad un intervento chirurgico.

CESENA, FORLI VITTIMA DI MALASANITA’ ? VUOI IL GIUSTO DANNO? AFFRETTATI

 

25 ANNI ESPERIENZA ADESSO 051 6447838

  • Raccontaci la tua storia di malasanità ed inviaci tutta la documentazione medica inerente il tuo caso che possiamo far analizzare dai nostri specialisti (chirurghi, neurologi, oncologi, infettivologi, immunologi, anestesisti, ortopedici, odontoiatri, oculisti) esperti nel settore della malasanità.
  • Inoltraci quindi il prima possibile tutta la documentazione medica relativa al tuo caso o del tuo familiare (pronto soccorso, cartelle cliniche, accertamenti strumentali, fatture mediche).
  • Penseremo a tutto noi. Contesteremo i profili di responsabilità al medico e/o alla struttura ospedaliera ritenuti responsabili, quantificheremo l’ammontare del danno e intavoleremo con gli stessi soggetti (o con le correlate compagnie assicurative) le idonee trattative per raggiungere un accordo risarcitorio.
  • Mettiamo a disposizione la consulenza specializzata della nostra equipe medico-legale per valutare la storia e le cartelle cliniche di chi ritiene di essere vittima di un episodio di malasanità. Se ravvisiamo una responsabilità del medico o della struttura sanitaria, interveniamo in rappresentanza del paziente.
  • Privilegiamo le procedure di risoluzione amichevole (ambito stragiudiziale): questo significa tempi minori e procedure più snelle. Se il tentativo di bonario componimento fallisce è previsto il ricorso alle azioni giudiziali appropriate al caso.
  • Ebbene, il c.t.u. ha individuato una inabilità temporanea al 75% di 120 giorni, una inabilità temporanea parziale al 50% di 450 giorni ed una inabilità temporanea parziale al 25% di altri 250 giorni (p. 40 elaborato peritale) nonché un danno permanente, con riferimento alla integrità psico-fisica, nella misura del 59%.
  • Con riferimento a quest’ultima voce l’esigenza di una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale biologico e di ogni altro danno non patrimoniale connesso alla lesione della salute, conseguente all’indirizzo giurisprudenziale di cui alle sentenze del novembre 2008 delle Sezioni Unite (dalla n.26972 alla n.26975), trova soddisfazione nella scelta di questo Tribunale di adottare le tabelle 2014 del Tribunale di Milano in quanto riproducono i “valori monetari medi, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini standardizzabili in quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva)” (così le relative note esplicative).
  • Pertanto, una invalidità del 59% in un soggetto di anni 61 al momento del fatto (il momento della disarticolazione dell’arto deve considerarsi quello in cui il danno si è stabilizzato) comporterebbe una liquidazione del danno biologico di Euro. 431.388,00, valutato all’attualità.

Tribunale Forlì, Sent., 22/02/2016, n. 211

  • Sentenza

IntestazioneSvolgimento del processo – Motivi della decisioneP.Q.M.Conclusione

Intestazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI FORLÌ

in composizione monocratica in persona del giudice dott.ssa Eleonora Ramacciotti pronuncia

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. 1484 del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 2012 promossa da:

X – Cod. Fisc. ***, anche quale erede di Y , elettivamente domiciliata in FORLI’, Corso Giuseppe Mazzini n. 70, presso lo studio dell’avv. NANNINI ENRICO, rappresentata e difesa dall’avv. NANNINI ENRICO per procura a margine dell’atto introduttivo

ATTRICE

nei confronti di

AZIENDA D.S. – P.I. ***, elettivamente domiciliata in Forlì, Corso della Repubblica n. 162, presso lo studio dell’avv. BELLINI CARLO, rappresentata e difesa dall’avv. BELLINI CARLO per procura a margine della comparsa di risposta

CONVENUTA

in punto a: Altri contratti atipici

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Gli attori, X e Y – rispettivamente figlia e coniuge di B. (deceduta il 4.10.2007) – esponevano che:

– il 9 gennaio 1998 la sig.ra B. era stata ricoverata presso il reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale G.B. Morgagni di Forlì, in seguito ad una frattura occorsale al femore sinistro;

– durante il ricovero i sanitari avevano occasione di accertare che la signora B. presentava un’importante neoformazione a carico della parete mammaria di destra, dall’esame istologico della quale erano in grado di diagnosticarle una concomitante patologia tumorale al sistema linfatico, di grado avanzatissimo e di tal severità da consentirle poche possibilità di sopravvivenza;

– l’arto fratturato, pur in presenza della concomitante patologia tumorale doveva essere operato;

– il successivo 13 gennaio 1998, veniva eseguito intervento di “osteosintesi endomidollare con infissione del c.d. chiodo di Kuntscher” all’interno del femore;

– la paziente, contro ogni aspettativa, guariva completamente dalla grave patologia tumorale in corso;

– nondimeno, immediatamente dopo l’intervento al femore sviluppava un’ingravescente e recidivante infezione “in situ”;

-in particolare, il giorno successivo all’intervento (14 gennaio 1998) si registrava notevole rialzo febbrile con temperatura corporea che raggiungeva i 38,6 C e, solo in seguito a tale evidenza, i sanitari decidevano di somministrare terapia antibiotica;

– in data 2 maggio 1998 l’esame colturale condotto sul sangue risultava positivo per Stafilococco Epidermidis, mentre risultavano a più riprese positivi per Stafilococco Aureo i tamponi condotti a livello del tramite fistoloso in corrispondenza dei tessuti molli della coscia sinistra (nonostante la somministrazione di numerosi e specifici farmaci antibiotici, quali la teicoplanina e la vancomicina);

– l’osteomielite cronica recidivante cui era andata incontro la signora B. era attribuibile all’infezione primaria del sito chirurgico contratta in concomitanza con l’intervento di osteosintesi effettuato in data 13 gennaio 1998;

– nel corso dei successivi 5 anni la sig.ra B. trascorreva ben 230 giorni di ospedalizzazione, fino a che, in data 26 ottobre 2002, il quadro clinico imponeva comunque, nonostante le dolorosissime terapie sostenute, la disarticolazione dell’arto;

– il tipo di approccio radicale con cui le era disarticolata la gamba, imposto dalla necessità di tutelare i tessuti limitrofi dal rischio che il processo infettivo, oramai prossimo all’acetabolo, potesse espandersi, impediva qualunque successivo intervento di protesizzazione, così rassegnando la sig.ra B. a condizioni di pressoché totale invalidità, che le stravolgeva la vita, e con essa quella dei familiari più prossimi, i quali le prestavano permanente assistenza sino alla sua morte, avvenuta dopo quasi dieci anni – il 4 ottobre 2007 – a seguito di una nuova neoplasia a carico del sistema respiratorio, patologia avulsa da quanto occorsole in precedenza;

– lo stato di infezione da cui erano derivate le successive problematiche, che avevano portato poi all’amputazione della gamba, era stato generato dalla mancanza di somministrazione di una qualsiasi profilassi antibiotica pre-operatoria, nonché della somministrazione di antibiotici nell’immediato post-operatorio;

– vi era dunque una responsabilità della struttura sanitaria per la comparsa di una infezione del sito chirurgico, non avendo il nosocomio messo in atto tutti quei comportamenti e quelle misure di sicurezza in grado di contrastarne la comparsa;

– sussisteva perciò la responsabilità contrattuale della Azienda U.S., essendo evidente il nesso causale tra l’infezione primaria del sito chirurgico (contratta in concomitanza con il primo intervento di osteosintesi, condotto in data 13 gennaio 1998) e l’osteomielite cronica recidivante cui era andata incontro la signora B.;

– gli attori avevano quindi diritto al risarcimento del danno, comprensivo del danno non patrimoniale proprio nonché del danno biologico iure hereditatis.

Concludevano chiedendo la condanna della convenuta al pagamento della somma così come calcolata in atti ovvero nella misura ritenuta di giustizia.

La società convenuta si costituiva, con comparsa depositata il 30.07.2012, osservando che l’infezione doveva essere attribuita alla neoplasia in atto ed in generale alla situazione già gravemente compromessa in cui versava la signora B. al momento dell’intervento, onde nessun comportamento negligente poteva essere imputato ai sanitari che avevano eseguito l’intervento. Concludeva chiedendo che il Tribunale respingesse le domande degli attori.

Nelle more del giudizio, in data 19.06.2012, decedeva il sig. Y , e con comparsa in riassunzione del 4.10.2012 la signora X si costituiva quale erede unica del padre.

Preliminarmente pare opportuno sintetizzare l’orientamento dei giudici di merito e di legittimità, costante ormai da molti anni, in tema di responsabilità, nei confronti del paziente danneggiato, a carico della struttura sanitaria e del sanitario operante.

In primo luogo, per quanto concerne la responsabilità dell’ospedale o della struttura (anche quando si tratti di un’organizzazione di fatto e anche per le ipotesi di occasionalità della stessa struttura), è possibile ricordare -fra le molte altre- i principi affermati da Cass. Sez. 3, n. 1620 del 3 febbraio 2012 (Presidente e relatore; Petti), Cass. Sez. 3, n. 975 del 16 gennaio 2009 (Presidente Vittoria – Estensore Finocchiaro) e Cass. Sez. 3, n. 7997 del 18 aprile 2005Cass. Sez. 3, sentenza n. 13953 del 14/06/2007 (Presidente Fiduccia – Estensore Trifone), Cass. Sezione 3, sentenza 13066 del 14 luglio 2004Cass. Sezione 3, sentenza n. 11488 del 21 giugno 2004. Da tali pronunce si ricava, in breve, che l’ospedale (o la struttura) risponde a titolo contrattuale dei danni patiti dal paziente:

– per fatto proprio, ex art. 1218 cod. civ., nei casi in cui quei danni siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura;

– per fatto altrui, ex art. 1228 cod. civ., allorquando (come nel caso presente) i danni siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui la struttura si sia avvalsa a qualunque titolo.

Più in particolare:

– il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) trova fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze;

– la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto;

– il principio generale emergente dall’art. 1228 cod. civ., secondo il quale, nell’adempimento dell’obbligazione importante la possibile insorgenza di una responsabilità di tipo contrattuale, il debitore risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, è applicabile anche al rapporto tra medico operatore e personale di supporto messogli a disposizione da una struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende, dovendosi esigere dal chirurgo operatore un dovere di controllo specifico sull’attività e sulle iniziative espletate dal personale sanitario con riguardo a possibili e non del tutto prevedibili eventi che possono intervenire non solo durante, ma anche prima dell’intervento e in preparazione di esso.

Passando alla distribuzione dell’onere probatorio, è qui sufficiente rinviare a Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1538 del 26/01/2010, a Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20101 del 18/09/2009, e a Cass. Sez. 3, Sentenza n. 975 del 16/01/2009, come pure alle successive conformi. Le citate pronunce, in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, affermano che:

– qualora sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) oltre che del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari;

– a carico dell’obbligato -sia esso il sanitario ovvero la struttura – si configura invece l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinali da un evento imprevisto e imprevedibile.

Peraltro, come è stato statuito – fra le molte- da Cass., Sez. 3, nella sentenza n. 15993 del 21/07/2011, da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24791 del 08/10/2008 e prima ancora dalle Sezioni unite (Cass. Sez. U, Sentenza n. 577 del 11/01/2008, è necessario sottolineare che l’insuccesso o il parziale successo di un intervento di routine, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implica di per sé la prova dell’anzidetto nesso di causalità. Infatti quel nesso, in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra il comportamento e l’evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile che non”.

Ciò porta a enucleare, in tema di onere della prova nella materia in esame, il principio generale seguente:

– il paziente danneggiato deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, nonché deve allegare l’inadempimento del debitore, che appaia astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato;

– rimane a carico del debitore l’onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante; in altre parole, il debitore dovrà dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, oppure che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno.

Ancora più sinteticamente, si può dire che il paziente che alleghi di aver patito un danno alla salute in conseguenza dell’attività professionale del medico, ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante l’intervento del medico, deve provare unicamente l’esistenza del rapporto (col sanitario o) con la struttura e l’insuccesso dell’intervento, e ciò anche quando l’intervento sia stato di speciale difficoltà. Invero, come è stato chiarito dalle pronunce da ultimo ricordate, l’esonero di responsabilità di cui all’art. 2236 cod. civ. non incide sui criteri di riparto dell’onere della prova.

Incombe, invece, sul medico (o sulla struttura), per evitare la condanna in sede risarcitoria, l’onere di provare che l’insuccesso dell’intervento sia dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell’esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione.

Nella presente vicenda, fatta applicazione di tali principi e rilevato che non vi è stata alcuna istruttoria orale (ad eccezione di quella inerente i rapporti tra la defunta e gli attori e l’assistenza da questi ultimi prestata durante il decorso della malattia) la decisione della controversia può e deve fondarsi sulla relazione depositata il 13.01.2015 dal C.T.U. dott. Roberto Bertelli, che con ampia e approfondita argomentazione perviene a coerenti conclusioni che il giudice ritiene senz’altro di poter condividere.

In particolare, il consulente d’ufficio, ha evidenziato che: “il tipo di intervento, la coesistenza sistemica di una patologia neoplastica, la presenza di varie lesioni osteolitiche femorali, nonché ulteriore lesione ripetitiva allo sterno, la lunga degenza ospedaliera preoperatoria, rendevano necessaria la profilassi antibiotica” (p. 27 relazione peritale); che “la paziente era sicuramente affetta da malattia neoplastica, malattia che ne indeboliva le difese immunitarie, come universalmente noto in campo medico, rendendola esposta a molteplici agenti infettivi”; che dunque “se i sanitari erano convinti di intervenire su di una frattura patologica, primitiva o secondaria che fosse, e da quanto scritto in cartella lo erano (giustamente), allora dovevano anche essere ben consci dei rischi infettivi che questo comportava” (p. 28); che è estremamente importante “eseguire una profilassi antibiotica quando si impiantano mezzi di sintesi, specialmente nelle dimensioni di un chiodo endomidollare”, atteso che “in questa tipologia di interventi…i batteri, presenti in piccole quantità anche nel flusso ematico di persone sane o asintomatiche, quando vengono a contatto con un mezzo metallico secernono una glicoproteina a scopo difensivo che li avvolge, come un bozzolo, e che li rende inattaccabili agli antibiotici ed alle difese del soggetto e gli permette una sopravvivenza anche di decine e decine di anni seppur asintomatici” (p. 28); che “in condizioni locali o generali di immunodepressione od in presenza di quantità batteriche maggiori, l’infezione può esplodere violenta, protetta per così dire dall’azione degli antibiotici a causa della presenza del metallo e del bozzolo protettivo che questo causa, come nel caso per cui è causa”; che “il batterio isolato in questo caso è lo Stphylococcus Aureus MRSA, batterio di sicura provenienza nosocomiale” (p. 29 elaborato peritale); che “la profilassi antibiotica deve essere iniziata immediatamente prima delle manovre anestesiologiche e comunque nei 30-60 minuti che precedono l’incisione della cute” (p. 27 elaborato peritale); che, nel caso di specie “averla iniziata a distanza di oltre 24 ore dall’intervento ha reso la stessa estremamente meno efficace se non inutile”; che, inoltre, “l’antibiotico utilizzato… prevedeva in scheda tecnica la somministrazione, in caso di prevenzione delle infezioni post-chirurgiche di 1 g. i.m. o 1-2 gr. i.m. e.v. in dose singola, un’ora prima dell’intervento, onde utilizzare la dose minima in soggetto oncologico e con infezione già in atto pare quantomeno censurabile” (p. 29 relazione peritale).

Il CTU in risposta alle osservazioni rassegnategli dal consulente di parte avversa (e segnatamente in relazione alla possibilità che l’infezione sia occorsa a seguito di contaminazione da altre foci conseguenti all’immunodepressione causata dal linfoma) ha avuto modo di precisare che “a livello possibilistico tutto è possibile, ma come già ampiamente esposto i sanitari non hanno adottato le minime misure di profilassi perioperatoria, necessarie proprio perché il soggetto era atteso come immunodepresso e facile alle infezioni, a causa della malattia neoplastica già nota” (cfr. p. 36).

Sulla scorta di tali premesse, il consulente tecnico d’ufficio è quindi pervenuto alle seguenti sintetiche conclusioni: “l’intervento chirurgico a cui venne sottoposta parte ricorrente in data 13/01/1998 era necessario e venne eseguito con adeguata perizia.

È peraltro riscontrabile un profilo di negligenza nel non aver eseguito la profilassi antibiotica peri-operatoria. A seguito dell’intervento si è instaurata una osteomielite da mettere in relazione di causalità probabilistica con la mancata profilassi antibiotica, e che ha portato ad una disarticolazione d’anca a sinistra con impossibilità alla protesizzazione. Il danno derivante dalla negligenza, stabilito che il criterio utilizzato sul nesso di causalità, che non può essere quello di certezza, ma più concretamente un criterio di probabilità medio-alta, è consistito in osteomielite femore in paziente affetto da Linfoma N. H. che ha determinato la necessità di disarticolazione dell’anca sinistra” (cfr. pp.39 e 40 dell’elaborato peritale).

Il CTU pertanto ascrive ai sanitari operanti presso la società convenuta un profilo di condotta professionale colposa in merito all’esecuzione della profilassi antibiotica preoperatoria.

Alla luce dei principi in tema di responsabilità sanitaria riepilogati all’inizio di questa motivazione e tenuto conto delle conclusioni del CTU (che superano efficacemente e persuasivamente le critiche sollevate dal consulente di parte nominato dalla convenuta e riportate in comparsa conclusionale), si deve perciò riconoscere sussistente la responsabilità della società convenuta nella causazione della patologia (osteomielite) riscontrata nella paziente e nella successiva disarticolazione d’anca a sinistra, con impossibilità alla protesizzazione, per il profilo di colpa sopra evidenziato.

Quanto alla liquidazione dei danni, partendo dal danno non patrimoniale iure proprio cagionato dalla perdita della madre per X e della moglie, per il defunto Y , assumendo quali parametri le tabelle milanesi, come da costante orientamento di questa sezione, il danno va liquidato in misura prossima al massimo previsto, cioè in Euro 320.000, in quanto si ritiene che le circostanze del decesso, in particolare l’infezione recidivante ed ingravescente che ha afflitto la sig.ra B. per quasi 5 anni, per poi portare al terribile esito, sempre temuto, della disarticolazione dell’arto, senza possibilità di protesi, e in generale il lunghissimo iter di malattia e di ricoveri ospedalieri in condizioni gravissime (durato quasi 10 anni), che hanno preceduto la morte, siano circostanze talmente penose e foriere di angoscia e sofferenza, per una figlia ed un coniuge, da indurre il Tribunale alla suddetta quantificazione.

Si aggiunga che, dalla espletata istruttoria orale, è stato pienamente confermato sia il legame particolarmente forte degli attori con la defunta sia il totale stravolgimento della vita degli stessi, i quali seguirono a dir poco assiduamente la signora B. in tutte le esigenze sia fisiche che psicologiche che accompagnarono il decorso della sua grave patologia (cfr. verbale di udienza del 7.11.2013).

Venendo alla quantificazione del danno subito dalla defunta e qui fatto valere dagli attori iure hereditatis, le voci dai medesimi esposte sono relative al danno biologico da invalidità temporanea totale e parziale ed al danno biologico permanente.

Sul punto si osserva preliminarmente in linea generale che secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, mentre non è possibile risarcire il c.d. danno tanatologico o da morte inteso quale lesione definitiva ed immediata del diritto alla vita è però ammesso il risarcimento del c.d. danno terminale biologico, ossia del danno che è maturato in capo alla vittima, trasmissibile agli eredi, ove la morte della stessa non sia seguita immediatamente alle lesioni ma tra l’infortunio e la morte sia intercorso un apprezzabile lasso temporale ancorché minimo (Cass. Civ, sez. III, 13 gennaio 2009 n. 458; Cass. Civ. sez. 3, gennaio 2008 n. 870).

Quanto alla liquidazione la giurisprudenza stabilisce che nell’ipotesi in cui una persona danneggiata muoia prima della liquidazione del risarcimento del danno per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in occasione dell’illecito, la determinazione del danno biologico che gli eredi del defunto richiedono iure successionis, va effettuata non con riferimento alla durata probabile della vita futura del soggetto, ma alla sua durata effettiva (cfr. Cass. n. 10980 del 9.8.2001, in senso conforme Cass. n..35661 del 1998; Cass. 489 del 1999 e Cass. n. 14767 del 2003Cass. Civ. Sez. III n. 19057 del 2003; da ultimo Cass. 2297/2011).

Nel caso di specie può sicuramente essere riconosciuto in favore degli attori il diritto al risarcimento del danno biologico terminale essendo venuta la morte di B. dopo quasi 10 anni dall’intervento e, quindi, sulla base dei suesposti principi dopo un apprezzabile lasso di tempo.

Inoltre, essendo pacifico che il decesso si è verificato per causa diversa, occorre tenere presenti i principi sopra ricordati in materia di liquidazione del danno da invalidità permanente.

Ebbene, il c.t.u. ha individuato una inabilità temporanea al 75% di 120 giorni, una inabilità temporanea parziale al 50% di 450 giorni ed una inabilità temporanea parziale al 25% di altri 250 giorni (p. 40 elaborato peritale) nonché un danno permanente, con riferimento alla integrità psico-fisica, nella misura del 59%.

Con riferimento a quest’ultima voce l’esigenza di una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale biologico e di ogni altro danno non patrimoniale connesso alla lesione della salute, conseguente all’indirizzo giurisprudenziale di cui alle sentenze del novembre 2008 delle Sezioni Unite (dalla n.26972 alla n.26975), trova soddisfazione nella scelta di questo Tribunale di adottare le tabelle 2014 del Tribunale di Milano in quanto riproducono i “valori monetari medi, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini standardizzabili in quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti anatomo-funzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva)” (così le relative note esplicative).

Pertanto, una invalidità del 59% in un soggetto di anni 61 al momento del fatto (il momento della disarticolazione dell’arto deve considerarsi quello in cui il danno si è stabilizzato) comporterebbe una liquidazione del danno biologico di Euro. 431.388,00, valutato all’attualità.

Occorre, inoltre, tenere conto che le tabelle milanesi propongono una personalizzazione “complessiva” della liquidazione del danno non patrimoniale laddove il caso concreto presenti peculiarità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva) dal danneggiato ed in particolare:

– sia quanto agli aspetti anatomo – funzionali e relazionali;

– sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva.

Tale personalizzazione si attua mediante la liquidazione di una percentuale dell”ammontare del danno biologico da invalidità permanente fino ad un massimo, che, con riferimento al caso di specie, è previsto nel 25%.

Tanto premesso occorre tenere conto, ai fini della liquidazione del danno, che parte attrice ha allegato e provato la sussistenza di circostanze soggettive tali da comportare una personalizzazione del danno biologico in esame sotto l’aspetto dinamico – relazionale: dall’espletata istruttoria orale è emerso, infatti, un peggioramento delle condizioni di vita della paziente che si è tradotto nell’impossibilità per B. di svolgere le normali attività della vita quotidiana, tanto da dovere essere assistita giorno e notte, anche dal punto di vista psicologico (cfr. verbale udienza 7.11.2013 testi B. A.M. e C.L.).

Ancora, si rende necessario procedere ad una personalizzazione del danno biologico finalizzata al riconoscimento della sofferenza morale trattandosi di macropermanente comportante rilevanti problemi di sofferenza fisica.

Passando alla quantificazione in termini monetari delle suddette ulteriori componenti di danno, si ritiene applicabile, alla luce del criterio proposto dalle tabelle di Milano del 2014, un aumento percentuale pari al 25% del danno biologico, per l’ammontare di Euro.107.847,00 (totale Euro. 539.235,00).

Tuttavia, come si è già avuto modo di specificare sopra, sulla scorta della giurisprudenza citata, i criteri tabellari per la liquidazione del danno alla salute (da IP) tengono conto dell’età del leso in relazione all’ordinario periodo di sopravvivenza collegato ad essa, ma, quando il danneggiato muore prima della liquidazione, la durata della vita è nota e non costituisce più un dato presunto e di ciò occorre tenere conto.

A ciò consegue che l’importo tabellare va innanzitutto calcolato per il periodo di sopravvivenza media in relazione all’età, moltiplicando, quindi, il risultato ottenuto per il periodo di sopravvivenza concreta.

Dandosi atto di operare il riferimento non già alla vita media di sopravvivenza, come dato generale, bensì, più opportunamente, all’aspettativa/speranza di vita media che, come noto, varia con l’età, dalle relative Tabelle ISTAT per la popolazione femminile relative all’anno 2002 (anno della disarticolazione dell’arto) si evince che la prospettiva di vita della B. era pari ad ancora anni 24 circa.

Suddividendo l’importo totale di Euro 539.235,00 per tale denominatore, si ottiene un importo annuo di Euro 22468,125, un importo mensile di Euro 1872, 34 e giornaliero di Euro 61,55, che, moltiplicato per quelli di effettiva sopravvivenza della B. (1803), porta ad una somma finale di Euro 110974,65 calcolata all’attualità.

Passando alla liquidazione del danno non patrimoniale conseguente alla ritenuta invalidità temporanea, a seguito dell’intervento del 1998, anche al proposito pare opportuno adottare la liquidazione congiunta del danno biologico e morale, come quantificato nelle citate tabelle 2014 del Tribunale di Milano in una forbice giornaliera da un minimo di Euro. 96 ad un massimo di Euro. 145; nel caso in esame, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto e delle particolari sofferenza patite dall’attrice, appare equa una quantificazione giornaliera corrispondente all’importo massimo di Euro.145,00; il complessivo ammontare di tale danno risulta così pari a Euro. 54.737,50, sempre con valutazione all’attualità.

Sommando le voci di cui sopra, si ottiene l’importo di Euro.165712,15 da corrispondere alla parte attrice a titolo di danno non patrimoniale, iure hereditatis.

Essendo uno degli attori deceduto nel corso della procedura, ed essendo X erede unica, non vi è luogo alla divisione della somma in base alle norme della successione legittima.

Le ulteriori voci di danno patrimoniale esposte da parte attrice non hanno ricevuto alcun sostegno probatorio nel corso del processo e vanno, quindi, disattese.

Inoltre, su tutte le somme liquidate per complessivi Euro. 805712,15, (danno non patrimoniale iure proprio e iure hereditatis), sulla base della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 1712/1995 compete anche l’equivalente del mancato godimento del bene danneggiato, ovvero del suo controvalore in denaro, quale lucro cessante – c.d. danno da ritardo -;lo stesso può ritenersi provato presuntivamente e valutato equitativamente nella misura del 2,5%, la quale appare congrua quale parametro per liquidare il danno da ritardo di cui sopra, in quanto corrisponde all’incirca alla media del tasso legale scelto in questi ultimi anni dal legislatore per la liquidazione degli interessi moratori ex art. 1224 c.c.

Peraltro, sulla base della citata sentenza, tale percentuale non può essere calcolata dalla data dell’illecito sulla complessiva somma liquidata a titolo di danno e già rivalutata, bensì deve essere calcolata periodicamente, con decorrenza dalla data del fatto, sulla somma capitale come progressivamente rivalutata.

Per facilitare il suddetto calcolo – tenuto conto in particolare che il danno non patrimoniale è stato liquidato all’attualità ed andrebbe quindi devalutato al fine di poter effettuare la descritta operazione -risulta più agevole, e comunque coerente con il metodo equitativo esposto, calcolare il suddetto interesse sulla somma integralmente rivalutata, ma da epoca intermedia (nel caso di specie dal 1.02.2007, quale data intermedia tra l’intervento e la data odierna, per il danno da inabilità

temporanea; dal 15.05.2009 quale data intermedia tra la disarticolazione dell’arto e la data odierna, per il danno da invalidità permanente; dal 15.12.2011 quale data intermedia tra il decesso e la data odierna, per il danno da perdita parentale); infatti tale metodo appare concettualmente e, nella sostanza, anche economicamente equivalente a quello espressamente indicato come legittimo dalla sentenza della Cassazione n. 1712/1995, in quanto espressione del potere equitativo del giudice nella liquidazione del danno subìto per il ritardo nel godimento dell’equivalente monetario del bene danneggiato (cfr. Cass. 10565/2002).

Pertanto il complessivo debito risarcitorio dell’Azienda U.S., viene individuato nella somma di Euro. 872112,84 sulla quale spetteranno gli interessi legali ai sensi dell’art. 1282 c.c. in quanto trasformatasi in debito di valuta.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Giudice del Tribunale di Forlì in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla causa n. 1482/2012 R.G., così provvede:

1) dichiara la responsabilità dell’Azienda U.S. nella causazione di danni a B. ; di conseguenza, la condanna a titolo risarcitorio al pagamento in favore dell’erede X della somma di Euro. 872112,84, comprensiva di rivalutazione monetaria e danno da ritardo, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza (20.02.2016) al saldo;

2) condanna la parte convenuta alla refusione in favore dell’attrice delle spese di lite che liquida in Euro. 25000,00 per compenso professionale oltre accessori di legge;

3) la condanna in via definitiva al pagamento delle spese di c.t.u., come liquidate in corso di causa.

Conclusione

Così deciso in Forlì, il 20 febbraio 2016.

Depositata in Cancelleria il 22 febbraio 2016.

Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 09/03/2022) 29/03/2022, n. 10050 PROVA IN GENERE IN MATERIA CIVILE › Onere della prova SANITA’ E SANITARI › Responsabilità professionale Intestazione REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente – Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere – Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere – Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere – Dott. SPAZIANI Paolo – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 1269/2019 R.G. proposto da: G.G. e M.S.; elettivamente domiciliati in Roma Via G. Pisanelli n. 2, presso lo Studio dell’Avvocato Stefano Di Meo, che li rappresenta e difende unitamente all’Avvocato Stefania Mezzetti, del Foro di Pisa. – ricorrenti – contro B.P., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Dante n. 12, presso lo Studio dell’Avvocato Silvio Avellano, che lo rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato Gian Carlo Cricca, del Foro di Massa; – controricorrente – nonchè AZIENDA UNITA’ SANITARIA LOCALE (OMISSIS), in persona del Commissario e legale rappresentante pro tempore, Dott. M.M.; elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Cavour n. 19, presso lo Studio dell’Avvocato Michele Roma, che la rappresenta e difende, unitamente all’avvocato Carlo Francesco Galantini del Foro, di Milano. – controricorrente e ricorrente incidentale – OneLEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. 31 Marzo 2022 pag. 1 contro B.P., G.G., M.S.. – intimati – avverso la sentenza n. 927/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 6 giugno 2018. Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 marzo 2022 dal Consigliere Dott. PAOLO SPAZIANI. Svolgimento del processo I coniugi M.S. e G.G. – premesso che la prima, alla quindicesima settimana di gravidanza, si era sottoposta ad amniocentesi presso il presidio ospedaliero di (OMISSIS); che l’esame era stato eseguito in modo imprudente e imperito dal Dott. B.P., il quale, contrariamente alle indicazioni della letteratura medica, aveva proceduto a tre consecutive inserzioni dell’ago nell’utero della donna, con ciò provocandole il pericolo di aborto; che questo pericolo si era manifestato subito dopo l’esame, allorchè la sig.ra M., uscendo dal nosocomio, aveva subito una perdita di liquido amniotico dalla vagina; e che all’esito di tre ripetuti ricoveri (il primo, nell’immediatezza della perdita, presso lo stesso ospedale di (OMISSIS), interrotto per dimissione della paziente il giorno successivo; il secondo, dopo una settimana, presso l’ospedale di (OMISSIS), disposto a seguito di certificato medico di rottura del sacco amniotico ma anche questo interrotto il giorno successivo; e il terzo, effettuato dopo che erano trascorsi alcuni altri giorni, presso il medesimo ospedale di (OMISSIS)) l’evento abortivo si era purtroppo effettivamente verificato convennero dinanzi al Tribunale di Massa la A.S.L. n. (OMISSIS) di Massa e Carrara e il Dott. B.P., chiedendone la condanna al risarcimento del pregiudizio non patrimoniale derivante dalla perdita del frutto del loro concepimento nonchè del danno biologico temporaneo subito dalla gestante. La domanda, accolta in parte dal tribunale, è stata rigettata dalla Corte di appello di Genova, sulla base dei seguenti rilievi: – la condotta imprudente e imperita ascritta al Dott. B. (asseritamente consistente nella effettuazione di tre prelievi transaddominali di liquido amniotico dalla cavità uterina della sig.ra M.) non poteva ritenersi provata; – l’assunto circa la sussistenza di tale contegno colposo trovava infatti fondamento esclusivamente nella testimonianza della madre della gestante (la quale aveva riferito di avere assistito all’amniocentesi da dietro un paravento grazie ad una fessura aperta nello stesso) ma tale dichiarazione non poteva ritenersi attendibile, sia perchè appariva scarsamente credibile che ad un esame da svolgersi in ambiente sterile il personale medico avesse lasciato assistere un congiunto della paziente, sia perchè ancor meno plausibile appariva la possibilità che da dietro un paravento la teste avesse potuto constatare con precisione la triplice inserzione dell’ago nell’addome della figlia, circondata dall’equipe medica, sia, infine, perchè il rapporto affettivo e parentale intercorrente tra la testimone e la parte lasciava presagire che la prima avesse voluto privilegiare, anche contro la realtà, la tesi difensiva sostenuta dalla seconda, scaricando su medico ed ospedale la responsabilità per l’aborto subito dalla figlia dopo circa due settimane dall’amniocentesi; – esclusa la dimostrazione della condotta imprudente e imperita addebitata al medico, doveva ridimensionarsi anche la rilevanza dell’esito dell’accertamento peritale espletato in primo grado, poichè il rilievo formulato dal consulente tecnico OneLEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. pag. 2 d’ufficio (circa l’opportunità che, in sede di effettuazione dell’amniocentesi, non siano eseguiti più di due inserimenti per volta, rinviando di una settimana l’esecuzione dell’eventuale terzo prelievo, ove se ne verifichi la necessità) postulava l’accertamento in fatto di tale circostanza, il quale doveva però ritenersi mancante, avuto riguardo all’inattendibilità delle dichiarazioni testimoniali sul punto; – di certo, al contrario, vi era solo il comportamento scarsamente prudente della gestante, la quale, come risultava dalla documentazione sanitaria acquisita, aveva volontariamente (e contro il parere dei sanitari) interrotto sia il ricovero disposto presso l’ospedale di (OMISSIS) nell’immediatezza dell’esame, sia il successivo ricovero, disposto circa una settimana dopo presso l’ospedale di (OMISSIS); –

 

 

 

tutto ciò premesso, non poteva “dirsi affatto raggiunta la prova (a carico degli attori che avevano indicato in citazione l’esecuzione di “… tre inserzioni dell’ago nell’arco di 45 minuti” quale causa dell’evento dannoso) che il Dott. B. avesse effettuato tale terza infissione” (p. 7 della sentenza impugnata), restando così non dimostrato il dedotto fatto colposo del medico. Avverso la sentenza della Corte genovese M.S. e G.G. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi. Hanno risposto con distinti controricorsi B.P. e l’Azienda Unità Sanitaria Locale Toscana (OMISSIS) (già A.S.L. n. (OMISSIS) di Massa e Carrara), la quale ha proposto altresì ricorso incidentale sulla base di un unico motivo. Fissata la pubblica udienza, i ricorsi sono stati trattati in Camera di consiglio, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale. Il Procuratore Generale, nella persona del Dott. Alessandro Pepe, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del quinto motivo del ricorso principale, rigettati gli altri e assorbito il ricorso incidentale. I ricorrenti e la controricorrente-ricorrente incidentale hanno depositato memorie. Motivi della decisione 1. Vanno esaminati congiuntamente, per evidente connessione, i primi quattro motivi del ricorso principale. Con il primo motivo (violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.) i ricorrenti censurano il giudizio di inattendibilità, reso dalla Corte territoriale, in ordine alle dichiarazioni testimoniali della madre della sig.ra M.. Con il secondo motivo (violazione dell’art. 232 c.p.c., in riferimento all’art. 116 c.p.c.) si dolgono che la Corte di appello non abbia tratto conseguenze ad essi favorevoli dalla mancata risposta del Dott. B. all’interrogatorio formale. Con il terzo motivo (violazione dell’art. 116 c.p.c., “in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5”) denunciano l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte di merito “per avere omesso di ritenere provato che il Dott. B. avesse effettuato tre infissioni dell’ago nella cavità uterina dell’attrice M.S.”. Con il quarto motivo (violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.) contestano la valutazione della consulenza tecnica d’ufficio effettuata nella sentenza impugnata. 1.1. Questi motivi sono manifestamente inammissibili. OneLEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. pag. 3 I ricorrenti, infatti, nel censurare la valutazione di inattendibilità della prova testimoniale, il giudizio sulle conclusioni peritali, le conseguenze attribuite alla mancata risposta all’interrogatorio formale e, in generale, l’apprezzamento delle risultanze istruttorie compiuto dalla Corte territoriale, omettono di considerare che esso apprezzamento è attività riservata al giudice del merito, cui compete non solo la valutazione delle prove ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 4 luglio 2017, n. 16467; Cass. 23 maggio 2014, n. 11511; Cass. 13 giugno 2014, n. 13485; Cass. 15 luglio 2009, n. 16499). Con i motivi in esame si tende pertanto inammissibilmente a provocare dalla Corte di cassazione una lettura delle risultanze istruttorie diversa da quella fornita dal giudice di appello, il quale non ha omesso di prendere in considerazione le prove dedotte in giudizio, ma, sulla base di rilievi insindacabili in questa sede di legittimità, le ha motivatamente reputate non convincenti o inattendibili. 2. Con il quinto motivo (violazione degli artt. 2697, 1176, 1218 c.c., nonchè mancata valutazione, in subordine, dell’ipotesi di cui all’art. 1227 c.c.) M.S. e G.G. denunciano la violazione, da parte della Corte territoriale, della regola di riparto dell’onere probatorio in tema di responsabilità sanitaria. Deducono che, in base ai criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, premessa la natura contrattuale della responsabilità del medico e della struttura sanitaria, incomberebbe sui debitori l’onere di dimostrare di aver “fatto tutto il possibile per adempiere” (p. 30 del ricorso). Indebitamente dunque, nella vicenda in esame, la Corte di appello avrebbe fatto dipendere il rigetto della domanda dalla mancata dimostrazione del fatto colposo del medico, essendo gli attori tenuti bensì ad allegare, ma non anche a provare l’inadempimento o l’inesatto adempimento dei convenuti. Il comportamento della sig.ra M., valutato come imprudente, avrebbe potuto, al più, essere riguardato come fatto colposo concorrente con l’errore medico, in funzione di una eventuale riduzione del risarcimento. 2.1. Il motivo in esame, è, anzitutto, ammissibile, in quanto volto a denunciare la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nell’ipotesi in cui, come nella specie, non ci si limiti a criticare la valutazione che il giudice del merito abbia svolto delle prove proposte dalle parti (di regola insindacabile, come sopra evidenziato) ma si deduca che abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 31 agosto 2020, n. 18092). 2.2. Il motivo è, inoltre, fondato. Con riguardo alle fattispecie di responsabilità medica non sottoposte al nuovo regime introdotto dalla L. n. 24 del 2017 (la quale non trova applicazione in ordine ai fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore: Cass. 8 novembre 2019, n. 28811; Cass. 11 novembre 2019, n. 28994), questa Corte, con orientamento consolidatosi sin dagli ultimi anni dello scorso millennio, ha chiarito che, nell’ipotesi in cui il paziente alleghi di aver subito danni in conseguenza di una attività svolta dal medico (eventualmente, ma non necessariamente, sulla base di un vincolo di dipendenza con la struttura sanitaria) in esecuzione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio tra quest’ultima e il paziente, tanto la responsabilità della struttura quanto quella del medico vanno qualificate in termini di responsabilità contrattuale: la prima, in quanto conseguente all’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria, che il debitore (la struttura) deve adempiere personalmente (rispondendone ex art. OneLEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. pag. 4 1218 c.c.) o mediante il personale sanitario (rispondendone ex art. 1228 c.c.); la seconda, in quanto conseguente alla violazione di un obbligo di comportamento fondato sulla buona fede e funzionale a tutelare l’affidamento sorto in capo al paziente in seguito al contatto sociale avuto con il medico, che diviene quindi direttamente responsabile, ex art. 1218 c.c., della violazione di siffatto obbligo (a partire da Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, cfr., tra le tante: Cass. 19 aprile 2006, n. 9085; Cass. 14 giugno 2007, n. 13953; Cass. 31 marzo 2015, n. 6438; Cass. 22 settembre 2015, n. 18610). Ciò premesso, il criterio di riparto dell’onere della prova in siffatte fattispecie non è pertanto quello che governa la responsabilità aquiliana (nell’ambito della quale il danneggiato è onerato della dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito ascritto al danneggiante) ma quello che governa la responsabilità contrattuale, in, base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento (Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533; tra le conformi più recenti, ex multis, Cass. 20 gennaio 2015, n. 826; Cass. 4 gennaio 2019, n. 98; Cass. 11 febbraio 2021, n. 3587). In particolare, con precipuo riferimento alle fattispecie di inadempimento delle obbligazioni professionali – tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica – questa Corte ha da tempo chiarito che è onere del creditore-attore dimostrare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del professionista è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno lamentato (Cass. 7 dicembre 2017, 29315; Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. 20 agosto 2018, n. 20812), mentre è onere del debitore dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da i causa non imputabile, provando che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (Cass. 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. 24 maggio 2019, n. 14335; Cass. 29 ottobre 2019, n. 27606). Il concetto di “imprevedibilità”, pur lessicalmente esplicativo di una soggettività comportamentale che rientra nell’area della colpa, riferito alla causa impeditiva dell’esatto adempimento, va inteso, precisamente, nel senso oggettivo della “non imputabilità” (art. 1218 c.c.), atteso che la non prevedibilità dell’evento (che si traduce nell’assenza di negligenza, imprudenza e imperizia nella condotta dell’agente) è giudizio che attiene alla sfera dell’elemento soggettivo dell’illecito, in funzione della sua esclusione, e che prescinde dalla configurabilità, sul piano oggettivo, di una relazione causale tra condotta ed evento dannoso. Nelle fattispecie di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni professionali – si è ulteriormente precisato – è configurabile un evento di danno, consistente nella lesione dell’interesse finale perseguito dal creditore (la vittoria della causa nel contratto concluso con l’avvocato; la guarigione dalla malattia nel contratto concluso con il medico), distinto dalla lesione dell’interesse strumentale di cui all’art. 1174 c.c. (interesse all’esecuzione della prestazione professionale secondo le leges artis) e viene dunque in chiara evidenza il nesso di causalità materiale che rientra nel tema di prova di spettanza del creditore, mentre il debitore, ove il primo abbia assolto il proprio onere, resta gravato da quello “di dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 11 novembre 2019, n. 28991; Cass. 31 agosto 2020, n. 18102). Il nesso di causalità materiale si atteggia invece diversamente nelle altre obbligazioni contrattuali, ove l’evento lesivo coincide astrattamente con la lesione dell’interesse creditorio. Questa coincidenza non ne esclude, tuttavia, la rilevanza quale elemento costitutivo proprio di tutte le fattispecie di responsabilità contrattuale, la quale, al contrario, trova una OneLEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. pag. 5 esplicita conferma positiva nella portata generale della disposizione (art. 1227 c.c., comma 1) che stabilisce una riduzione del risarcimento nell’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore abbia concorso a “cagionare” il danno, ritenendosi tradizionalmente (v. già Cass. 9 gennaio 2001, n. 240) che tale disposizione, a differenza di quella contenuta nel comma 2 del medesimo articolo, si riferisca al “danno-evento” e non al “danno-conseguenza”. Non sembra esatto, pertanto, al di fuori delle obbligazioni professionali, parlare di “assorbimento” del danno-evento nella lesione dell’interesse creditorio, secondo un lessico sovente adottato in dottrina, mentre concettualmente più corretta appare la diversa ricostruzione, pur suggerita in dottrina, in termini di prova prima facie. Avuto riguardo agli illustrati principi, nell’ipotesi – come quella in esame – in cui il paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria per i danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle leges artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); è, invece, onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile (Cass. 26 novembre 2020, n. 26907). 2.3. La Corte di appello di Genova ha completamente disatteso gli illustrati, consolidati principi. Benvero, infatti, nella concreta fattispecie, dovendosi ritenere dimostrata, secondo i noti criteri presuntivi, la relazione di causalità tra l’intervento sanitario praticato alla sig.ra M. e il successivo evento abortivo (stante il rapporto di immediatezza temporale tra l’esecuzione dell’amniocentesi e la perdita del liquido amniotico, seguita, a distanza di pochi giorni, dalla certificazione della rottura del sacco amniotico e dalla verificazione dell’aborto), in applicazione dei suindicati criteri di riparto dell’onere della prova, non sarebbe spettato alla ricorrente provare la dedotta condotta imprudente e imperita del medico, ma sarebbe spettato a quest’ultimo (e alla struttura sanitaria) dimostrare che tale condotta non vi era stata, che la prestazione era stata eseguita con la dovuta diligenza professionale, e che l’evento di danno si era verificato per una causa non imputabile al sanitario. In altre parole, una volta emerso e provato, sul piano presuntivo, il nesso causale tra l’intervento sanitario e l’evento dannoso, non spettava alla paziente (che aveva debitamente allegato l’errore del medico, asseritamente consistente nell’indebita effettuazione di tre consecutivi prelievi di liquido amniotico, in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica) dimostrare tale circostanza, concretante l’inesatto adempimento della obbligazione professionale, ma spettava al professionista e alla struttura sanitaria dimostrare l’esatto adempimento, provando, in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, di avere eseguito l’amniocentesi in modo corretto, attenendosi, anche in relazione al numero dei prelievi effettuati, alle regole tecniche proprie della professione esercitata. A prescindere dal mancato accertamento della circostanza relativa alle tre inserzioni dell’ago nella cute della gestante (mancato accertamento dipendente dalla insindacabile valutazione delle risultanze istruttorie operata dalla Corte territoriale, di esclusiva spettanza del giudice del merito) appare, dunque, per quanto si è detto, errata in diritto la statuizione di rigetto della domanda risarcitoria fondata sull’omessa dimostrazione della predetta circostanza da parte degli attori, atteso che non spettava ad essi dare la prova dell’allegato errore del sanitario, ma spettava a quest’ultimo fornire la prova liberatoria di avere esattamente adempiuto, dimostrando che la condotta imprudente ed imperita OneLEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. pag. 6 addebitatagli non era stata da lui posta in essere. In accoglimento del quinto motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio della causa, ex art. 383 c.p.c., alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, che si uniformerà ai principi sopra illustrati. Il giudice del rinvio valuterà altresì l’eventuale concorso della danneggiata alla verificazione dell’evento dannoso, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, e provvederà, infine, anche sulle spese del giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3). 3. L’accoglimento del quinto motivo del ricorso principale comporta l’assorbimento (nei termini del c.d. assorbimento “improprio”) del ricorso incidentale proposto dalla Azienda Unità Sanitaria Locale Toscana (OMISSIS). Con l’unico motivo di tale ricorso, deducendo violazione dell’art. 112 c.p.c., la AUSL si è doluta dell’omessa pronuncia, da parte della Corte territoriale, sulla domanda restitutoria da essa proposta con riguardo alle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado, la cui efficacia esecutiva era stata solo parzialmente sospesa. Come correttamente osservato dal Procuratore Generale nelle conclusioni scritte depositate, la cassazione della sentenza di appello in accoglimento di un motivo del ricorso principale che incide sulla fondatezza della domanda restitutoria oggetto dell’omissione di pronuncia censurata con il ricorso incidentale, comporta l’assorbimento di quest’ultimo, atteso che si verifica una delle ipotesi in cui la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass. 22 giugno 2020, n. 12193; Cass. 2 luglio 2021, n. 18832). P.Q.M. La Corte accoglie il quinto motivo del ricorso principale, rigettati gli altri ed assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione.