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Danno morte famigliari incidenti stradali risarcimento

Danno morte famigliari incidenti stradali risarcimento, danno mortale indennizzo incidente stradale,

 

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Né è considerazione idonea a far venir meno il vizio di legittimità ed anche di motivazione del quale è affetta la sentenza impugnata quanto osservato dalle due compagnie di assicurazioni, ovvero che la quantificazione cui è pervenuta la Corte d’Appello di Palermo sia in riferimento alla posizione del padre per la morte dei due figli, che alla posizione della sorella per la perdita dei due fratelli, si collocherebbe all’interno dei minimi e dei massimi fissati dalle tabelle milanesi per fatti lesivi consimili.

La fortuita riconducibilità degli importi liquidati all’interno del range previsto per identico evento lesivo dalle tabelle milanesi non rileva in primo luogo perché esse, non essendo state prese in considerazione, non costituiscono parametro di leggibilità e verificabilità della motivazione, ed inoltre non colma in alcun modo il vuoto esistente tra le premesse, ovvero i fattori da tenere in considerazione enunciati alle pag. 11 e 12, ed i fattori di cui il tribunale non avrebbe tenuto adeguato conto (differenziazione tra la posizione del dare da quella della figlia) e le conclusioni, che constano solo dell’importo complessivamente liquidato a ciascuno. Si aggiunga che, negli elementi da tenere in considerazione per una adeguata quantificazione non è neppure enunciata la completa disgregazione del nucleo familiare derivante dal fatto dell’aver la madre dato causa seppur involontariamente alla morte dei due minori.

 

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Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 340 c.p.c., ovvero che non sia stata dichiarata l’inammissibilità dell’appello proposto dalla MEIE avverso la sentenza definitiva, in quanto proposto in relazione a motivi che investivano la sentenza non definitiva (criteri di liquidazione del danno), nei cui confronti non era stata proposta riserva d’appello né appello tempestivo da parte della MEIE. Denuncia anche l’insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo alla ridotta liquidazione del danno operata dalla corte d’appello in suo favore per la perdita dei due figli rispetto al giudice di primo grado.

– Motivi del ricorso di I.G. .

Con il primo motivo di ricorso, la I. lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 e 32 della Costituzione, 2053, 2056, 2059, 1226 c.c. e 345 c.p.c. nonché il vizio di motivazione sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, per aver la corte d’Appello di Palermo liquidato in suo favore il danno non patrimoniale in misura inadeguata, anche sotto il profilo della mancata personalizzazione del risarcimento e con insufficiente e contraddittoria motivazione circa i criteri di liquidazione dello stesso danno.

Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e motivazione insufficiente e contraddittoria circa un punto decisivo della controversia relativo alla mancata conferma dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale adottati dal primo giudice con la sentenza del 2008, in quanto capi della sentenza passati in giudicato per la mancata impugnazione della sentenza non definitiva del 2006 che già stabiliva i criteri di liquidazione del danno. Infine, con il terzo motivo, I.G. denuncia la violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 91 e 93 c.p.c. per aver la corte d’appello compensato tra le parti le spese processuali, sostenendo che, dovendo essere l’appello rigettato, le spese processuali avrebbero dovuto essere poste ad esclusivo carico delle compagnie di assicurazioni appellanti.

– Alcuni motivi dei due ricorsi sopra riportati possono essere trattati congiuntamente, in quanto pongono analoghe questioni, sebbene con argomentazioni non coincidenti. Possono essere trattati congiuntamente il primo motivo del ricorso del padre I.A. ed il secondo motivo del ricorso della figlia, I.G. che vanno esaminati per primi, sotto un profilo logico. Entrambi infatti pongono la questione se sia passata in giudicato nei confronti della Meie Ass.ni (che non fece appello immediato né riserva di appello) la sentenza non definitiva del 2006 che fissava i criteri di liquidazione del danno, e se sia legittima o meno la sentenza impugnata laddove ha ritenuto di discostarsi non solo dalla quantificazione, ma dagli stessi criteri di liquidazione enunciati con la sentenza non definitiva di primo grado impugnata solo da alcune delle parti.

AS15Dovranno poi essere trattati congiuntamente il secondo motivo del ricorso di I. A. ed il primo motivo del ricorso di I. G. , che entrambi pongono la questione della inadeguata personalizzazione del danno non patrimoniale da essi subito per la perdita dei due congiunti, conseguente alla drastica e immotivata riduzione della misura del risarcimento operata dalla corte d’appello.

– Esame del primo motivo del ricorso di I. A. e del secondo motivo del ricorso di I. G. (formazione o meno del giudicato sui criteri di liquidazione del danno non patrimoniale).

Dal ricorso di I. A. sul punto:

con il primo motivo, I. A. segnala che l’appellante principale, Aurora Ass.ni, già Meie Ass.ni (assicurante della vettura del N. ), ha proposto appello solo avverso la sentenza definitiva del 2008 e non anche avverso quella non definitiva. Non avrebbe quindi potuto proporre motivi di appello che investissero la sentenza non definitiva (in particolare, motivi relativi ai criteri di liquidazione da tener presenti nella liquidazione del danno non patrimoniale).La compagnia ha invece impugnato i criteri di liquidazione del danno e, benché l’I. già in appello abbia eccepito l’intervenuta formazione del giudicato interno sul punto, la corte d’appello ha accolto l’appello principale della Aurora, omettendo di considerare che quanto meno nei suoi confronti la sentenza non definitiva era ormai passata in giudicato. Evidenzia il ricorrente che nella sentenza definitiva di primo grado, ove è stata effettuata per la prima volta la liquidazione del danno, i criteri di liquidazione del danno sono trasfusi recuperando la formula virgolettata contenuta nella sentenza di primo grado, ovvero il tribunale nel liquidare il danno si è ritenuto vincolato da quei criteri ed ha effettuato il calcolo applicandoli alla lettera. Si era quindi formato — secondo la posizione del ricorrente – il giudicato in ordine al criterio di liquidazione del danno morale subito da I. A., che doveva essere liquidato (come indicato nella sentenza non definitiva) alla stregua di 1/2 del danno biologico che sarebbe spettato ai figli I. S. e V. se anziché morire, avessero riportato una invalidità del 100%. La Meie invece ha criticato proprio i criteri di liquidazione, proponendo dei criteri alternativi.

Dal ricorso della I. G. sul medesimo punto:

anche la I. G. evidenzia l’avvenuta formazione del giudicato interno sul punto della sentenza non definitiva laddove essa stabiliva i criteri di quantificazione del danno, che la corte d’appello non avrebbe potuto quindi stravolgere. Aggiunge che la corte territoriale non ha motivato sulla pur sollevata eccezione di giudicato interno.

La Unipol sostiene sulla prima questione di aver impugnato la sentenza di appello in relazione alla inadeguata quantificazione in concreto operata dal tribunale e quindi che non avrebbe messo in discussione i parametri indicati dalla sentenza non definitiva, puntualizzando anche che la sentenza non definitiva non conteneva parametri vincolanti ma soltanto linee guida ovvero criteri di massima.

Il motivo è complessivamente infondato.

Partendo dall’ultimo rilievo della I. G. , che non è neppure adeguatamente sussunto sub specie di omessa pronuncia, va detto che la corte d’appello prende in considerazione il rilievo degli I. in ordine alla avvenuta formazione del giudicato e rigetta l’appello sul punto, ritenendolo infondato, quindi la questione è stata esaminata.

 

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AS14 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE – SENTENZA 15 ottobre 2015, n.20895 – Pres. Salmé – est. Rubino

 

Preliminarmente i due ricorsi, proposti da I.A. e I.G. avverso la medesima sentenza, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

– Motivi del ricorso di I.A. :

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 340 c.p.c., ovvero che non sia stata dichiarata l’inammissibilità dell’appello proposto dalla MEIE avverso la sentenza definitiva, in quanto proposto in relazione a motivi che investivano la sentenza non definitiva (criteri di liquidazione del danno), nei cui confronti non era stata proposta riserva d’appello né appello tempestivo da parte della MEIE. Denuncia anche l’insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riguardo alla ridotta liquidazione del danno operata dalla corte d’appello in suo favore per la perdita dei due figli rispetto al giudice di primo grado.

– Motivi del ricorso di I.G. .

Con il primo motivo di ricorso, la I. lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 e 32 della Costituzione, 2053, 2056, 2059, 1226 c.c. e 345 c.p.c. nonché il vizio di motivazione sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, per aver la corte d’Appello di Palermo liquidato in suo favore il danno non patrimoniale in misura inadeguata, anche sotto il profilo della mancata personalizzazione del risarcimento e con insufficiente e contraddittoria motivazione circa i criteri di liquidazione dello stesso danno.

Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e motivazione insufficiente e contraddittoria circa un punto decisivo della controversia relativo alla mancata conferma dei criteri di liquidazione del danno non patrimoniale adottati dal primo giudice con la sentenza del 2008, in quanto capi della sentenza passati in giudicato per la mancata impugnazione della sentenza non definitiva del 2006 che già stabiliva i criteri di liquidazione del danno. Infine, con il terzo motivo, I.G. denuncia la violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 91 e 93 c.p.c. per aver la corte d’appello compensato tra le parti le spese processuali, sostenendo che, dovendo essere l’appello rigettato, le spese processuali avrebbero dovuto essere poste ad esclusivo carico delle compagnie di assicurazioni appellanti.

– Alcuni motivi dei due ricorsi sopra riportati possono essere trattati congiuntamente, in quanto pongono analoghe questioni, sebbene con argomentazioni non coincidenti. Possono essere trattati congiuntamente il primo motivo del ricorso del padre I.A. ed il secondo motivo del ricorso della figlia, I.G. che vanno esaminati per primi, sotto un profilo logico. Entrambi infatti pongono la questione se sia passata in giudicato nei confronti della Meie Ass.ni (che non fece appello immediato né riserva di appello) la sentenza non definitiva del 2006 che fissava i criteri di liquidazione del danno, e se sia legittima o meno la sentenza impugnata laddove ha ritenuto di discostarsi non solo dalla quantificazione, ma dagli stessi criteri di liquidazione enunciati con la sentenza non definitiva di primo grado impugnata solo da alcune delle parti.

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Dovranno poi essere trattati congiuntamente il secondo motivo del ricorso di I. A. ed il primo motivo del ricorso di I. G. , che entrambi pongono la questione della inadeguata personalizzazione del danno non patrimoniale da essi subito per la perdita dei due congiunti, conseguente alla drastica e immotivata riduzione della misura del risarcimento operata dalla corte d’appello.

– Esame del primo motivo del ricorso di I. A. e del secondo motivo del ricorso di I. G. (formazione o meno del giudicato sui criteri di liquidazione del danno non patrimoniale).

Dal ricorso di I. A. sul punto:

con il primo motivo, I. A. segnala che l’appellante principale, Aurora Ass.ni, già Meie Ass.ni (assicurante della vettura del N. ), ha proposto appello solo avverso la sentenza definitiva del 2008 e non anche avverso quella non definitiva. Non avrebbe quindi potuto proporre motivi di appello che investissero la sentenza non definitiva (in particolare, motivi relativi ai criteri di liquidazione da tener presenti nella liquidazione del danno non patrimoniale).La compagnia ha invece impugnato i criteri di liquidazione del danno e, benché l’I. già in appello abbia eccepito l’intervenuta formazione del giudicato interno sul punto, la corte d’appello ha accolto l’appello principale della Aurora, omettendo di considerare che quanto meno nei suoi confronti la sentenza non definitiva era ormai passata in giudicato. Evidenzia il ricorrente che nella sentenza definitiva di primo grado, ove è stata effettuata per la prima volta la liquidazione del danno, i criteri di liquidazione del danno sono trasfusi recuperando la formula virgolettata contenuta nella sentenza di primo grado, ovvero il tribunale nel liquidare il danno si è ritenuto vincolato da quei criteri ed ha effettuato il calcolo applicandoli alla lettera. Si era quindi formato — secondo la posizione del ricorrente – il giudicato in ordine al criterio di liquidazione del danno morale subito da I. A., che doveva essere liquidato (come indicato nella sentenza non definitiva) alla stregua di 1/2 del danno biologico che sarebbe spettato ai figli I. S. e V. se anziché morire, avessero riportato una invalidità del 100%. La Meie invece ha criticato proprio i criteri di liquidazione, proponendo dei criteri alternativi.

Dal ricorso della I. G. sul medesimo punto:

anche la I. G. evidenzia l’avvenuta formazione del giudicato interno sul punto della sentenza non definitiva laddove essa stabiliva i criteri di quantificazione del danno, che la corte d’appello non avrebbe potuto quindi stravolgere. Aggiunge che la corte territoriale non ha motivato sulla pur sollevata eccezione di giudicato interno.

La Unipol sostiene sulla prima questione di aver impugnato la sentenza di appello in relazione alla inadeguata quantificazione in concreto operata dal tribunale e quindi che non avrebbe messo in discussione i parametri indicati dalla sentenza non definitiva, puntualizzando anche che la sentenza non definitiva non conteneva parametri vincolanti ma soltanto linee guida ovvero criteri di massima.

Il motivo è complessivamente infondato.

Partendo dall’ultimo rilievo della I. G. , che non è neppure adeguatamente sussunto sub specie di omessa pronuncia, va detto che la corte d’appello prende in considerazione il rilievo degli I. in ordine alla avvenuta formazione del giudicato e rigetta l’appello sul punto, ritenendolo infondato, quindi la questione è stata esaminata.

È ben vero che nella sentenza non definitiva del 2006 il Tribunale di Termini Imerese afferma in dispositivo che la liquidazione del danno, rinviata alla sentenza definitiva, ‘dovrà determinarsi alla stregua dei criteri di cui in motivazione’. In motivazione dedica alcune pagine alla nozione di danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, al fatto che sia un danno comunque soggetto all’onere di allegazione e prova, alla possibilità di far ricorso alle presunzioni, alla autonomia ontologica tra il danno da perdita del rapporto parentale e il danno morale ed anche alla necessità di evitare duplicazioni del detta il criterio di liquidazione al quale si dovrà attenere lo stesso tribunale nella prosecuzione del giudizio di primo grado, quindi afferma quanto segue: ‘appare equo adottare il criterio di liquidazione sviluppato dallo stesso attore in comparsa conclusionale, quantificando il pregiudizio, sulla base del danno morale che sarebbe spettato ai defunti se, anziché morire, avessero riportato una invalidità del 100% (pari ad 1/2 del danno biologico complessivo) tenendo pure conto delle esigenze del caso di specie, e cioè dell’età della persona offesa o del dolore arrecato ai familiari per la sua morte e di tutte le circostanze ed elementi della fattispecie in modo da rendere la somma liquidata il più possibile adeguata all’effettivo danno patito’. Lo stesso tribunale, nella sentenza definitiva di primo grado del 2008, riporta il brano virgolettato dicendo pianamente che quello è il criterio, vincolante, di liquidazione del danno, ed opera i suoi calcoli e la personalizzazione del danno dipartendosi da quei criteri (e poi scegliendo di porre a base del suo calcolo le tabelle in uso presso il Tribunale di Palermo).

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Il fatto che il tribunale nella sentenza definitiva si sia ritenuto vincolato ai criteri precedentemente enunciati non è determinante. Ciò che rileva è che le considerazioni contenute nella sentenza non definitiva sul punto dei criteri guida cui uniformarsi per la liquidazione del danno mancavano di quella incisività decisoria necessaria per poter affermare che su di esse si fosse formato il giudicato, tenuto conto che per capo autonomo della sentenza suscettibile di formare oggetto di giudicato interno deve intendersi solo quello che risolve una questione dotata di una propria individualità ed autonomia (Cass. n. 3806 del 2004), tant’è che la sentenza definitiva ha poi dovuto necessariamente, e potuto legittimamente, perché tale facoltà di scelta era stata lasciata aperta dalla sentenza non definitiva, scegliere a quali tabelle far riferimento per operare concretamente la liquidazione del danno.

– Esame del secondo motivo del ricorso di I. A. e del primo motivo del ricorso di I. G. (sul punto della riduttiva liquidazione del danno non patrimoniale subito).

Sulla seconda questione, relativa al significativo ridimensionamento, intervenuto in appello, della liquidazione del danno non patrimoniale subito dal padre e dalla sorella per la tragica morte dei due minori trasportati sulla vettura condotta dalla madre, I. A. denuncia solo la presenza di un vizio di motivazione, mentre I. G. denuncia la presenza sia del vizio di motivazione che di violazione di legge.

Nel ricorso di A. , in particolare, si denuncia che, premesso che la corte d’appello non si è ritenuta vincolata dai criteri di liquidazione enunciati dalla sentenza non definitiva, la corte non ha minimamente giustificato perché, dopo aver riconosciuto la gravità della perdita per il padre e la sua afflittività al massimo grado, ha poi ritenuto di discostarsi pesantemente ed apoditticamente al ribasso rispetto a quanto stabilito dal primo giudice (200.000 Euro anziché 315.000 circa), senza dare nessuna giustificazione in ordine a questa conclusione, del tutto contraddittoria rispetto alle premesse.

Dal ricorso della I. G. sulla questione del ridimensionamento del danno non patrimoniale si evince che anch’ella addebita alla corte territoriale di non aver dato conto dei criteri seguiti nella scelta operata, nei suoi confronti, di abbattere il risarcimento per il danno non patrimoniale subito per la perdita dei due fratelli (e per la completa disgregazione del nucleo familiare che ne è seguita, in quanto a seguito dell’incidente il padre e la madre si sono separati), senza dar conto di aver tenuto in adeguata considerazione le peculiarità particolarmente afflittive del caso di specie. In sostanza, si sostiene che manchi una personalizzazione adeguata del danno che tenesse conto dell’avvenuta distruzione dell’intero nucleo familiare, in cui anche i rapporti tra i soggetti sopravvissuti sono stati irrimediabilmente compromessi, e che la motivazione non consenta di verificare attraverso quali valutazioni si sia pervenuti ad una quantificazione del tutto diversa e così ridotta rispetto a quella operata in primo grado.

Nel suo controricorso la Unipol sulla seconda questione osserva che la quantificazione del danno non patrimoniale è valutazione equitativa per eccellenza, utilmente sindacabile con lo strumento del vizio di motivazione solo nei casi estremi, cioè solo se difetti totalmente la giustificazione delle scelte operate per arrivare ad un determinato risultato concreto e sottolinea che comunque la quantificazione operata dalla corte d’appello si mantiene all’interno del range indicato dalle tabelle milanesi sia per la posizione del padre (per il cui danno non patrimoniale le tabelle indicherebbero una cifra tra 154 e 308 mila) che per quella della figlia (in quanto le tabelle di Milano indicherebbero, per la perdita di un fratello, un importo da 22.340 a 134.040 Euro).

Anche la Fondiaria sostiene nel suo controricorso che la corte d’appello ha adeguatamente personalizzato il danno, utilizzando la liquidazione equitativa pura che non è preferita ma neppure preclusa dai più recenti orientamenti di legittimità, pervenendo ad un quantum che rientra, sia per il padre che per la figlia, all’interno della forbice delle tabelle di Milano.

La seconda questione è fondata ed entrambi i ricorsi, riuniti, vanno accolti sul punto con cassazione della sentenza impugnata.

La corte d’appello nel quantificare i danni non patrimoniali riportati dal padre e dalla sorella per la perdita dei due giovanissimi congiunti utilizza il criterio equitativo puro, ovvero non fa riferimento a nessuna delle tabelle in uso presso i tribunali né ancora la propria liquidazione ad altri criteri obiettivi. Critica il risultato cui è prevenuto il giudice di primo grado per non aver adeguatamente differenziato la condizione del padre e della figlia sia sotto il profilo degli esiti afflittivi dell’incidente che della conseguente quantificazione del danno. Enuncia, a pag. 11 e 12, alcune circostanze del caso concreto di cui afferma che si debba tener conto (l’età delle vittime all’epoca

licenziamento per giusta causa licenziamento per giustificato motivo soggettivo esempio licenziamento per giustificato motivo soggettivo assenza ingiustificata licenziamento per giustificato motivo soggettivo e preavviso lettera licenziamento per giustificato motivo soggettivo licenziamento per giustificato motivo soggettivo e indennita' di disoccupazione licenziamento per giustificato motivo soggettivo e disoccupazione licenziamento per giustificato motivo soggettivo disoccupazione
licenziamento per giusta causa licenziamento per giustificato motivo soggettivo esempio
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del sinistro, lo strettissimo vincolo di sangue con i danneggiati e il diverso grado di parentela tra vittime e parenti superstiti, il numero dei superstiti del nucleo familiare e la loro età, il rapporto di convivenza tra questi ultimi e i deceduti, la particolare sofferenza espressa da entrambi i danneggiati ed in particolare dal padre per le modalità dell’incidente che portò alla disgregazione del nucleo familiare), circostanze delle quali sostiene che il giudice di primo grado non avrebbe tenuto conto sufficientemente, per poi arrivare a riconoscere a ciascuno dei due attuali ricorrenti un importo totale rilevantemente diverso ed inferiore, specie in riferimento al danno subito dalla sorella G. , rispetto a quello liquidato in primo grado.

La sentenza impugnata viola l’art. 2056 c.c. ed al contempo si traduce in una motivazione sulla liquidazione del danno contraddittoria e che non consente al lettore e all’interprete di comprendere la logica e ripercorrere lo sviluppo motivazionale che ha portato a determinate scelte.

Il percorso seguito da questa Corte negli ultimi anni in tema di liquidazione del danno non patrimoniale è stato teso a garantire una sempre più adeguata personalizzazione del danno, che necessariamente deve passare attraverso l’abbandono di logiche liquidazione meramente assertive di un risultato e l’ancoraggio della quantificazione, che è pur sempre, necessariamente, affidata alla valutazione equitativa del giudice di merito (che è quello che meglio può apprezzare avendole avute di fronte, le mille sfaccettature e le particolarità del caso concreto), a parametri obiettivi quali le tabelle in uso presso i vari tribunali.

Alla attenzione ai meccanismi di personalizzazione del danno è andata di pari passo la costante consapevolezza della necessità di garantire il più possibile l’uniformità di giudizio (e quindi al contempo la prevedibilità e la prevedibilità di esso) della quale si è fatta carico Cass. n. 12408 del 2011, indicando ai giudici di merito che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziali. Allo scopo di garantire tale uniformità di trattamento la Corte ha indicato l’opportunità di far riferimento non soltanto ad un criterio di quantificazione obiettivo ma ad un criterio in assoluto preferibile, ovvero al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, prescelto come preferibile per una vasta gamma di considerazioni tra le quali l’essere già ampiamente diffuso sul territorio nazionale ben al di fuori dai confini del singolo distretto. A tali tabelle questa Corte ha riconosciuto, dal 2011 in poi, in applicazione dell’art. 3 Cost., la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono.

A fronte del percorso tracciato dalla giurisprudenza di legittimità che impone di ancorare la valutazione equitativa del danno non patrimoniale a parametri obiettivi, verificabili, all’interno dei quali sussumere le varie circostanze del caso concreto (e, dal 2011 in poi, non a qualsiasi paramento obiettivo ma alle tabelle milanesi ove non sussistano e siano stati enunciati motivi per discostarsene) in modo da dar corpo ad una nozione di equità che sia non solo regola del caso concreto ma anche garanzia della parità di trattamento, non può più considerarsi legittima la liquidazione del danno non patrimoniale che faccia riferimento, come la sentenza impugnata, al criterio equitativo puro, svincolato da qualsiasi parametro di riferimento ai fini della quantificazione. Essa si traduce in una quantificazione arbitraria ed immotivata che, pur partendo dalla enunciazione di alcune premesse, non da giustificazione delle conclusioni cui perviene. Tale criterio infatti non rende evidente e controllabile l’iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto realmente, nell’operare la liquidazione, della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo, o se l’enunciazione dei criteri sia rimasta una mera affermazione di principio.

Né è considerazione idonea a far venir meno il vizio di legittimità ed anche di motivazione del quale è affetta la sentenza impugnata quanto osservato dalle due compagnie di assicurazioni, ovvero che la quantificazione cui è pervenuta la Corte d’Appello di Palermo sia in riferimento alla posizione del padre per la morte dei due figli, che alla posizione della sorella per la perdita dei due fratelli, si collocherebbe all’interno dei minimi e dei massimi fissati dalle tabelle milanesi per fatti lesivi consimili.

La fortuita riconducibilità degli importi liquidati all’interno del range previsto per identico evento lesivo dalle tabelle milanesi non rileva in primo luogo perché esse, non essendo state prese in considerazione, non costituiscono parametro di leggibilità e verificabilità della motivazione, ed inoltre non colma in alcun modo il vuoto esistente tra le premesse, ovvero i fattori da tenere in considerazione enunciati alle pag. 11 e 12, ed i fattori di cui il tribunale non avrebbe tenuto adeguato conto (differenziazione tra la posizione del dare da quella della figlia) e le conclusioni, che constano solo dell’importo complessivamente liquidato a ciascuno. Si aggiunga che, negli elementi da tenere in considerazione per una adeguata quantificazione non è neppure enunciata la completa disgregazione del nucleo familiare derivante dal fatto dell’aver la madre dato causa seppur involontariamente alla morte dei due minori.

– Per quanto concerne il terzo motivo del ricorso di I. G. relativo alla liquidazione delle spese di giudizio, con il quale la parte, soccombente nel giudizio di merito si duole della liquidazione a suo carico delle spese di giudizio denunciando che siano conseguenza dell’erronea pronuncia sul merito, esso è assorbito dall’accoglimento del secondo motivo.

In accoglimento del secondo motivo di ricorso di I.A. , e del primo motivo di ricorso di I.G. , la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione che deciderà anche sulle spese in applicazione del seguente principio di diritto: ‘Nella liquidazione del danno non patrimoniale, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, non è consentita la liquidazione equitativa c.d. pura, che non faccia riferimento a criteri obiettivi di liquidazione del danno che tengano conto ed elaborino le differenti variabili del caso concreto, allo scopo di rendere verificabile a posteriori l’iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, e di permettere di verificare se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo. Per garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, tra i criteri in astratto adottabili deve ritenersi preferibile il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano al quale la S.C., in applicazione dell’art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno non patrimoniale alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ., salvo che non sussistano in concreto circostante idonee a giustificarne l’abbandono’.

P.Q.M.

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La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, accoglie il secondo motivo ricorso di ricorso di I.A. , e il primo motivo di ricorso di I.G. , cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione che deciderà anche sulle spese.

 

 

 

Danno morte famigliari incidenti stradali risarcimento, danno mortale indennizzo incidente stradale,
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Con atto di citazione dell’11 aprile 2002 M.F. e A.A., M.M. e G., rispettivamente, genitori e sorelle di M.A., hanno convenuto in giudizio davanti al tribunale di Cuneo D.L. e la Unipol Assicurazioni chiedendo la condanna di entrambi al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla morte del congiunto avvenuta a causa della collisione frontale tra l’auto Fiat Punto, di proprietà di M.F. e condotta dal figlio A. e l’auto Renault Espace, condotta dal D., che procedeva in senso opposto, fuori dal centro abitato, sulla strada provinciale (OMISSIS). Gli attori hanno sostenuto che l’incidente era avvenuto per esclusiva responsabilità del D. che aveva effettuato la svolta a sinistra per immettersi in un’area privata senza concedere la dovuta precedenza all’auto che marciava in senso opposto e che, non ostante che il conducente poi deceduto avesse frenato e si fosse spostato sulla sua destra, non aveva potuto evitare l’urto.

Si è costituita in giudizio solo la Unipol Assicurazioni, eccependo che la responsabilità era esclusivamente del M., che marciava a velocità eccessiva in centro abitato e non indossava cinture di sicurezza e, in via subordinata, sostenendo che doveva ritenersi la pari responsabilità concorrente dei conducenti. La convenuta ha anche contestato l’entità del risarcimento richiesto, sia con riferimento al danno biologico iure hereditatis che al danno esistenziale familiare e al danno morale.

Il tribunale di Cuneo, con sentenza del 1 dicembre 2013, dichiarata la concorrente responsabilità del D. per il 70 % e del M. per il 30 %, rigettata la richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali futuri e del danno biologico iure hereditatis, ha determinato in Euro 63.579,55 il risarcimento dovuto ad M. A., in Euro 59.430,19 quello dovuto ad A.A. e in Euro 11.886,04 quello dovuto a ognuna delle sorelle, M. M. e a G.

La corte d’appello di Torino, confermato il concorso di responsabilità dei conducenti, ha ridimensionando quella del M., determinandola nel 20%, valutando come ben più grave quella dell’investitore che aveva effettuato una svolta a sinistra senza dare la precedenza al veicolo che procedeva in senso opposto e invadendone la corsia di marcia, come emergeva dalla testimonianza di un passeggero dell’auto che seguiva quella condotta dalla vittima. Ha inoltre osservato che non poteva essere accolta la richiesta di nuova c.t.u. basata sulla critica di quella già effettuata in primo grado, perchè basata sull’applicazione di parametri teorici, perchè anche un altro c.t.u. non avrebbe potuto che applicare parametri generali per la valutazione dei fatti accertati. Ha inoltre rilevato che dalla certificazione rilasciata dal comune di (OMISSIS) risultava che il luogo dello scontro era posto fuori dal centro abitato e che, pertanto, il limite di velocità generale era quello di 90 km orari, mentre il c.t.u., sulla base delle tracce di frenata lasciate dall’auto del M. e degli effetti dell’urto della stessa con un terzo veicolo in sosta, aveva calcolato che la velocità dell’auto della vittima era di circa 120 km quando il conducente si era avveduto dell’ostacolo sulla sua traiettoria e di circa 103 km orari al momento dell’impatto. Comunque tale velocità non era adatta alle concrete condizioni dei luoghi in considerazione del fatto che la strada provinciale era fiancheggiata da abitazioni. Infine, la corte territoriale ha concluso affermando che, anche a ritenere che se il M. avesse rispettato il limite di velocità dei 90 km orari, a causa della repentinità della manovra di svolta a sinistra del D., non avrebbe potuto evitare lo scontro, pur essendo vero che la minore velocità avrebbe reso meno drammatiche le conseguenze dell’urto.

Quanto alla liquidazione dei danni la corte territoriale ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento dei danni patrimoniali futuri dei genitori della vittima, rilevando che dalle testimonianze raccolte era emerso che M.A. viveva con i genitori e che versava una somma di L. 1.500.000 mensili, ma che non era provato che gli stessi fossero in condizioni economiche tali da dover essere mantenuti, e, quindi, ben poteva ritenersi che tale somma fosse destinata a coprire esclusivamente le spese del proprio mantenimento.

 

Viene affermata l’impossibilità di ravvisare una perdita in capo a un soggetto che non essendo più in vita ha cessato di esistere (Cfr. CASTRONOVO, Il danno biologico a causa di morte aspettando la Corte Costituzionale, in Vita not., 1994, 563 s.; Corte Cost., 27 ottobre 1994, n. 372, cit. nt. 9. Negli stessi termini v. anche Cass., 25 febbraio 1997, n. 1704). Il ragionamento a cui pervengono le Sezioni Unite lascia tuttavia intravvedere – senza affrontarla – una delle principali criticità del “sistema tradizionale” sulla quale la terza sezione deve essersi fondata, senza tuttavia darne esplicito riferimento, per concludere in senso favorevole alla risarcibilità.

Il punto di osservazione adottato dalle Sezioni Unite è, infatti, incentrato su una e una sola prospettiva, per così dire “bloccata”: quella del momento in cui si verifica la morte, a seguito della quale la vittima, essendo deceduta, non può risentire di alcun pregiudizio.

L’ottica adottata dalla Sezione Terza, al contrario, appare “mobile”: mettendo a confronto il momento precedente il verificarsi dell’evento morte con quello immediatamente successivo non ha potuto fare a meno di riscontrare un disvalore meritevole di essere risarcito.

L’ulteriore argomento sostenuto dalle Sezioni Unite, strettamente connesso al precedente, si basa invece sull’impossibilità della vittima di acquistare il credito risarcitorio e trasmetterlo agli eredi in quanto priva, a causa del decesso, della capacità giuridica.

La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (Cass. n. 1361 del 2014), anche perchè, secondo un’autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intersa collettività.

Ora, in disparte che la corrispondenza a un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo, deve rilevarsi che, secondo l’orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato). Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria “sia data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti”.

Coglie il vero, peraltro, il rilievo secondo cui oltre che oggetto di un diritto del titolare, insuscettibile di tutela per il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio, la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza escludere il diritto ex art. 185 c.p., comma 2, al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato, ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, per l’evidente difficoltà, tutt’ora esistente per quanto riguarda la tutela giurisdizionale amministrativa, di individuare e circoscrivere l’ambito della “collettività” legittimate a invocare la tutela.

3.4. Ulteriore rilievo, frequente in dottrina, è che sarebbe contraddittorio concedere onerosi risarcimenti dei danni derivanti da lesioni gravissime e negarli del tutto nel caso di illecita privazione della vita, con ciò contraddicendo sia il principio della necessaria integralità del risarcimento che la funzione deterrente che dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile e che dovrebbe portare a introdurre anche nel nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi.

L’argomento (“è più conveniente uccidere che ferire”), di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo, perchè non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall’applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell’illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l’autore dell’illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore.

Peraltro è noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132 del 1985, n. 369 del 1996, n. 148 del 1999) il principio dell’integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale ed è quindi compatibile con l’esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che in una perdita che richiede l’esistenza di un soggetto che tale perdita subisce.

Del pari non appare imposta da alcuna norma o principio costituzionale un obbligo del legislatore di prevedere che la tutela penale sia necessariamente accompagnata da forme di risarcimento che prevedano la riparazione per equivalente di ogni perdita derivante da reato anche quando manchi un soggetto al quale la perdita sia riferibile.

Da quanto già rilevato, inoltre, la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi” (Cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito.

3.5. Pur non contestando il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in adesione a un’autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994) secondo il quale i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell’evento lesivo, in sè considerato, si è affermato con la sentenza n. 1361 del 2014 che il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell’evento lesivo che, salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale, ponendosi come eccezione a tale principio della risarcibilità dei soli “danni conseguenza”.

Ma, a parte che l’ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l’anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” e il “bene vita” sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

Peraltro, se tale anticipazione fosse imposta dalla difficoltà di quantificazione del lasso di tempo intercorrente tra morte (da intendersi sempre processo mortale e non come evento istantaneo) e lesione, necessario a far sorgere nel patrimonio della vittima il credito risarcitorio, sarebbe facile osservare, da un lato, che da punto di vista giuridico è sempre necessario individuare un momento convenzionale di conclusione del processo mortale, come descritto dalla scienza medica, al quale legare la nascita del credito, e dall’altro, che l’individuazione dell’intervallo di tempo tra morte e lesione, rilevante ai fini del riconoscimento del credito risarcitorio, è operazione ermeneutica certamente delicata e che presenta margini di incertezza, ma del tutto conforme a quella che il giudice è costantemente impegnato ad operare quando è costretto a fare applicazione di concetti generali e astratti.

  1. Con il sesto motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 2, 29 e 30 cost. e dell’art. 2043, nonchè dell’art. 112 c.p.c. Premessa la distinzione tra danno morale e danno esistenziale, per perdita del rapporto parentale conseguente alla morte del congiunto, i ricorrenti lamentano che la corte territoriale non si sia pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno esistenziale, avendo affermato che tale danno era stato risarcito dal tribunale con la liquidazione equitativa complessiva del danno morale.

Con il settimo motivo i ricorrenti ribadiscono che la corte territoriale non avrebbe fornito alcuna motivazione del rigetto della domanda di risarcimento del danno esistenziale.

I motivi sono infondati. Premesso che la corte territoriale, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, ha motivato, richiamando e condividendo quanto operato dal tribunale, la liquidazione unitaria del danno, avendo considerato, al momento della relativa quantificazione, tanto quello di tipo relazionale quanto la sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale, e quindi non ha omesso di valutare il relativo capo di domanda, deve anche osservarsi che, come affermato da queste sezioni unite con le sentenze 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975 non sono configurabili, all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale, cioè del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, autonome sottocategorie di danno, perchè se in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all’art. 2059 c.c.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 17 giugno – 22 luglio 2015, n. 15350

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. SALME’ Giuseppe – rel. Presidente Sezione –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sezione –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente Sezione –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12282/2008 proposto da:

M.G., A.A., M.M., M.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE PROVINCE 114-B23, presso lo studio dell’avvocato D’AMICO PAOLA, rappresentati e difesi dall’avvocato DE MAGISTRIS ENRICO, per delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del Direttore Sinistri pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato VITOLO MASSIMO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati RODOLFI MARCO, MARTINI FILIPPO, per procura speciale del notaio Dott. Sandro Serra di Bologna, rep. 79843 del 24/03/14, in atti;

– resistente con procura –

e contro

D.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 423/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 16/03/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2014 dal Presidente Dott. GIUSEPPE SALME’;

uditi gli avvocati Filippo MARTINI, Marco RODOLFI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione dell’11 aprile 2002 M.F. e A.A., M.M. e G., rispettivamente, genitori e sorelle di M.A., hanno convenuto in giudizio davanti al tribunale di Cuneo D.L. e la Unipol Assicurazioni chiedendo la condanna di entrambi al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dalla morte del congiunto avvenuta a causa della collisione frontale tra l’auto Fiat Punto, di proprietà di M.F. e condotta dal figlio A. e l’auto Renault Espace, condotta dal D., che procedeva in senso opposto, fuori dal centro abitato, sulla strada provinciale (OMISSIS). Gli attori hanno sostenuto che l’incidente era avvenuto per esclusiva responsabilità del D. che aveva effettuato la svolta a sinistra per immettersi in un’area privata senza concedere la dovuta precedenza all’auto che marciava in senso opposto e che, non ostante che il conducente poi deceduto avesse frenato e si fosse spostato sulla sua destra, non aveva potuto evitare l’urto.

Si è costituita in giudizio solo la Unipol Assicurazioni, eccependo che la responsabilità era esclusivamente del M., che marciava a velocità eccessiva in centro abitato e non indossava cinture di sicurezza e, in via subordinata, sostenendo che doveva ritenersi la pari responsabilità concorrente dei conducenti. La convenuta ha anche contestato l’entità del risarcimento richiesto, sia con riferimento al danno biologico iure hereditatis che al danno esistenziale familiare e al danno morale.

Il tribunale di Cuneo, con sentenza del 1 dicembre 2013, dichiarata la concorrente responsabilità del D. per il 70 % e del M. per il 30 %, rigettata la richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali futuri e del danno biologico iure hereditatis, ha determinato in Euro 63.579,55 il risarcimento dovuto ad M. A., in Euro 59.430,19 quello dovuto ad A.A. e in Euro 11.886,04 quello dovuto a ognuna delle sorelle, M. M. e a G.

La corte d’appello di Torino, confermato il concorso di responsabilità dei conducenti, ha ridimensionando quella del M., determinandola nel 20%, valutando come ben più grave quella dell’investitore che aveva effettuato una svolta a sinistra senza dare la precedenza al veicolo che procedeva in senso opposto e invadendone la corsia di marcia, come emergeva dalla testimonianza di un passeggero dell’auto che seguiva quella condotta dalla vittima. Ha inoltre osservato che non poteva essere accolta la richiesta di nuova c.t.u. basata sulla critica di quella già effettuata in primo grado, perchè basata sull’applicazione di parametri teorici, perchè anche un altro c.t.u. non avrebbe potuto che applicare parametri generali per la valutazione dei fatti accertati. Ha inoltre rilevato che dalla certificazione rilasciata dal comune di (OMISSIS) risultava che il luogo dello scontro era posto fuori dal centro abitato e che, pertanto, il limite di velocità generale era quello di 90 km orari, mentre il c.t.u., sulla base delle tracce di frenata lasciate dall’auto del M. e degli effetti dell’urto della stessa con un terzo veicolo in sosta, aveva calcolato che la velocità dell’auto della vittima era di circa 120 km quando il conducente si era avveduto dell’ostacolo sulla sua traiettoria e di circa 103 km orari al momento dell’impatto. Comunque tale velocità non era adatta alle concrete condizioni dei luoghi in considerazione del fatto che la strada provinciale era fiancheggiata da abitazioni. Infine, la corte territoriale ha concluso affermando che, anche a ritenere che se il M. avesse rispettato il limite di velocità dei 90 km orari, a causa della repentinità della manovra di svolta a sinistra del D., non avrebbe potuto evitare lo scontro, pur essendo vero che la minore velocità avrebbe reso meno drammatiche le conseguenze dell’urto.

Quanto alla liquidazione dei danni la corte territoriale ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento dei danni patrimoniali futuri dei genitori della vittima, rilevando che dalle testimonianze raccolte era emerso che M.A. viveva con i genitori e che versava una somma di L. 1.500.000 mensili, ma che non era provato che gli stessi fossero in condizioni economiche tali da dover essere mantenuti, e, quindi, ben poteva ritenersi che tale somma fosse destinata a coprire esclusivamente le spese del proprio mantenimento.

E’ stato anche confermato il rigetto della domanda di risarcimento del danno biologico iure hereditatis, in conformità con l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte, espressamente richiamato nella sentenza impugnata, secondo cui gli eredi possono chiedere solo il riconoscimento, pro quota, dei diritti entrati nel patrimonio del de cuius, e quindi, nel caso di morte che si verifica immediatamente o a breve distanza di tempo dalla lesione, possono ottenere solo il risarcimento del danno per lesione del diritto alla salute della vittima, ma non quello per la lesione del diverso bene giuridico della vita, che, per il definitivo contestuale venir meno del soggetto, non entra nel suo patrimonio e può ricevere tutela solo in sede penale.

Infine, la corte territoriale ha respinto la censura secondo la quale il tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento del danno esistenziale rilevando che invece tale richiesta era stata esaminata e accolta (pagina 13 della sentenza di primo grado) anche se il danno era stato liquidato equitativamente in modo complessivo, insieme ad altre voci di danno non patrimoniale.

M.F. e A.A., M.M. e G. ricorrono per la cassazione della sentenza della corte d’appello di Torino sulla base di sette motivi.

Il D. e la Unipol non hanno svolto attività difensiva.

La terza sezione civile, in esito alla discussione fissata per l’udienza del 22 gennaio 2014, con ordinanza del 4 marzo 2014, pronunciata a seguito di riconvocazione del collegio, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, avendo rilevato l’esistenza di un contrasto consapevole tra la sentenza 23 gennaio 2014 n. 1361, che ha ammesso la risarcibilità, iure hereditatis, del danno derivante da perdita della vita verificatasi immediatamente dopo le lesioni riportate in un incidente stradale, e il precedente contrario e costante orientamento, risalente alla sentenza delle sezioni unite n. 3475 del 1925, che ha anche trovato conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994 e in decisioni delle sezioni unite (da ultimo, la n. 26972/2008), che hanno negato tale risarcibilità. L’ordinanza aggiunge che la questione di cui si tratta dovrebbe anche considerarsi di particolare importanza.

In data 31 maggio 2014 i ricorrenti hanno presentato memoria. La Unipol ha conferito procura speciale per la discussione.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo, deducendo la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1227, 2043 e 2056 c.c., e vizio di motivazione, i ricorrenti criticano la sentenza impugnata per avere ritenuto il concorso di responsabilità del M., invece che quella esclusiva del D., sulla base di una motivazione relativa al superamento della velocità massima da parte del M. non adeguata nè sorretta da accertamenti tecnici corretti, in conseguenza del rigetto, altrettanto immotivato, della richiesta di nuova c.t.u.. Rilevano anche la contraddizione tra l’affermazione che la repentinità della manovra di svolta a sinistra avrebbe reso inevitabile lo scontro pure se la velocità della vittima fosse rimasta nei limiti legali e il rilievo secondo cui in tal caso le conseguenze del sinistro sarebbero state meno disastrose.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano che, violando l’art. 154 C.d.S., la corte territoriale, nell’affermare il concorso di responsabilità invece che la responsabilità esclusiva del D., non abbia dato adeguato rilievo alla condotta dello stesso, che aveva omesso di accertarsi che la manovra di svolta a sinistra potesse essere effettuata senza creare intralcio o pericolo, segnalandola tempestivamente.

I motivi non sono fondati.

La corte territoriale ha fornito puntuale motivazione del giudizio di fatto relativo alla dinamica dell’incidente indicando le fonti del proprio convincimento, comprensivo del diverso apprezzamento del grado della concorrente responsabilità della vittima. Ha altresì indicato la ragione del rigetto della richiesta di nuova c.t.u., basata sulla critica dell’utilizzazione di parametri teorici da parte del c.t. nominato dal tribunale che non era idonea a giustificare il ricorso a un’ulteriore c.t.u.. Le argomentazioni della corte territoriale sono logiche e sufficienti e pertanto non giustificano alcuna censura in questa sede.

  1. Deducendo la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., i ricorrenti, con il terzo motivo, censurano la sentenza impugnata per avere negato il risarcimento del danno patrimoniale lamentato da M.F. e A.A. non ostante che fosse stata acquisita la prova della convivenza di M. A. con i genitori e il suo contributo mensile di L. 1.500.000 che avrebbe potuto continuare, in considerazione dell’età della vittima (31 anni) e dei genitori stessi, per almeno un quinquennio.

Lamentano, inoltre, con il quarto motivo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e artt. 2727 e 2720 c.c.) che invece di porre a fondamento della decisione le prove raccolte il giudice del merito si sia basato sulla mera presunzione che i versamenti mensili avessero la funzione di far fronte alle proprie spese di vitto e alloggio.

Il motivo non è fondato. La presunzione utilizzata dalla corte territoriale per affermare che i versamenti mensili da parte del figlio convivente non avevano la funzione di contribuire al mantenimento dei genitori, ma quella di far fronte alle spese per il proprio mantenimento è corretta, essendo basata sulla mancanza di prova dell’insufficienza economica dei genitori, e non merita la critica, peraltro del tutto apodittica e generica, dei ricorrenti.

  1. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 Cost., e art. 2043 c.c. Criticano la sentenza impugnata per aver escluso il risarcimento, richiesto iure hereditatis, del danno biologico per la morte del congiunto seguita immediatamente dopo la lesione subita a causa dello scontro, non ritenendo condivisibile la netta distinzione fra il bene della salute e il bene della vita, tutelati, l’uno dall’art. 32, e l’altro dall’art. 2 Cost., e quindi compresi nella tutela risarcitoria atipica apprestata dall’art. 2043 c.c. Denunciano la contraddizione tra l’ammissione del risarcimento a favore degli eredi per il danno meno grave derivante dalla perdita della salute e la negazione di tale risarcimento per il danno ben più grave derivante dalla perdita della vita dalla quale, indipendentemente dal venir meno del soggetto, non può che derivare un danno risarcibile. D’altra parte, tra la lesione e la morte esisterebbe sempre un sia pur impercettibile spazio temporale e quindi non esisterebbe giustificazione logica tra ammettere il risarcimento nel caso in cui tale spazio è ampio e negarlo quando è minimo.

3.1. L’ordinanza della terza sezione, con la quale è stato segnalato il contrasto consapevole tra la sentenza n. 1361 del 2014 e il precedente costante e risalente orientamento, individua la questione rimessa all’esame di queste sezioni unite nella risarcibilità o meno iure hereditatis del danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni derivanti da un fatto illecito.

Esulano quindi dal tema che formerà oggetto della presente decisione le questioni relative al risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni. Con riferimento a tale situazione, infatti, non c’è alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte (che prende le mosse dalla sentenza delle sezioni unite del 22 dicembre 1925, alla quale di seguito si farà più ampio riferimento) sul diritto iure hereditatis al risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse, diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi.

L’unica distinzione che si registra negli orientamenti giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno da risarcire che, da un orientamento, con “mera sintesi descrittiva” (Cass. n. 26972 del 2008), è indicato come “danno biologico terminale” (Cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003, n 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549 del 2004, n. 1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del 2007, n. 1072 del 2011) – liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno – e,da altro orientamento, è classificato come danno “catastrofale” (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni). Il danno “catastrofale”, inoltre, per alcune decisioni, ha natura di danno morale soggettivo (Cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010, n. 8630 del 2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n. 7126 del 2013, n. 13537 del 2014) e per altre, di danno biologico psichico (Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del 2011). Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni perchè, come già osservato, anche in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l’utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale.

3.2. Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, invece, si ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento dei danno iure hereditatis. Tale orientamento risalente (Cass. sez. un. 22 dicembre 1925, n. 3475: “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza di un subbietto di diritto”) ha trovato autorevole conferma nella sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994 e, come rilevato, anche nella più recente sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008 (che ne ha tratto la conseguenza dell’impossibilità di una rimeditazione della soluzione condivisa) e si è mantenuto costante nella giurisprudenza di questa Corte (tra le più recenti, successivamente alla citata sentenza della Corte costituzionale: Cass. n. 11169 del 1994, n. 10628 del 1995, n. 12299 del 1995, n. 4991 del 1996, n. 3592 del 1997, n. 1704 del 1997, n. 9470 del 1997, n. 11439 del 1997, n. 5136 del 1998, n. 6408 del 1998, n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 1633 del 2000, n. 2134 del 2000, n. 4729 del 2001, 4783 del 2001, n. 887 del 2002, n. 7632 del 2003, n. 9620 del 2003, n. 517 del 2006, n. 3760 del 2007, n. 12253 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 15706 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 2654 del 2012, n. 12236 del 2012, n. 17320 del 2012).

A tale risalente e costante orientamento le sezioni unite intendono dare continuità non essendo state dedotte ragioni convincenti che ne giustifichino il superamento. Certamente tali ragioni non sono state neppure articolate con la sentenza n. 15760 del 2006 (pronunciata su ricorso avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni da morte di congiunto avanzata iure proprio) che, con affermazione avente dichiarata natura di obiter “sistematico”, si è limitata ad auspicare che, in conformità con orientamenti dottrinari italiani ed Europei, sia riconosciuto quale momento costitutivo del credito risarcitorio quello della lesione, indipendentemente dall’intervallo di tempo con l’evento morte causalmente collegato alla lesione stessa. Ma anche l’ampia motivazione della sentenza n. 1361 del 2014, che ha effettuato un consapevole revirement, dando luogo al contrasto in relazione al quale è stato chiesto l’intervento di queste sezioni unite, non contiene argomentazioni decisive per superare l’orientamento tradizionale, che, d’altra parte, risulta essere conforme agli orientamenti della giurisprudenza Europea con la sola eccezione di quella portoghese.

La premessa del predetto orientamento, peraltro non sempre esplicitata, sta nell’ormai compiuto superamento della prospettiva originaria secondo la quale il cuore del sistema della responsabilità civile era legato a un profilo di natura soggettiva e psicologica, che ha riguardo all’agire dell’autore dell’illecito e vede nel risarcimento una forma di sanzione analoga a quella penale, con funzione deterrente (sistema sintetizzato dal principio affermato dalla dottrina tedesca “nessuna responsabilità senza colpa” e corrispondente alle codificazioni ottocentesche per giungere alle stesse impostazioni teoriche poste a base del codice del ’42).

L’attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l’area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell’analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l’esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno, inteso come “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva ” (Corte cost. n. 372 del 1994). Nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente (Cass. n. 1633 del 2000; n. 7632 del 2003; n. 12253 del 2007). La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”, pregiudicato dalla lesione dalla quale sia derivata la morte, diverse essendo, ovviamente, le perdite di natura patrimoniale o non patrimoniale che dalla morte possono derivare ai congiunti della vittima, in quanto tali e non in quanto eredi (Corte cost. n. 372 del 1994; Cass. n. 4991 del 1996; n. 1704 del 1997; n. 3592 del 1997; n. 5136 del 1998; n. 6404 del 1998; n. 12083 del 1998, n. 491 del 1999, n. 2134 del 2000; n. 517 del 2006, n. 6946 del 2007, n. 12253 del 2007). E poichè una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poichè, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. n. 4991 del 1996).

E’ questo l’argomento che la dottrina definisce “epicureo”, in quanto riecheggia le affermazioni di Epicuro contenute nella Lettera sulla felicità a Meneceo (“Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perchè quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perchè per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci”) e che compare nella già indicata sentenza delle sezioni unite n. 3475 del 1925 ed è condiviso dalla sentenza della Corte costituzionale n. 372 del 1994, – che ha escluso la contrarietà a Costituzione dell’interpretazione degli articoli 2043 e 2059 c.c. secondo cui non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita, potendo giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile, solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni, nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte – e dalla costante giurisprudenza successiva di questa Corte.

3.3. La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (Cass. n. 1361 del 2014), anche perchè, secondo un’autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intersa collettività.

Ora, in disparte che la corrispondenza a un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo, deve rilevarsi che, secondo l’orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato). Come è stato osservato (Cass. n. 6754 del 2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria “sia data anche al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti”.

Coglie il vero, peraltro, il rilievo secondo cui oltre che oggetto di un diritto del titolare, insuscettibile di tutela per il venir meno del soggetto nel momento stesso in cui sorgerebbe il credito risarcitorio, la vita è bene meritevole di tutela nell’interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza escludere il diritto ex art. 185 c.p., comma 2, al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato, ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, per l’evidente difficoltà, tutt’ora esistente per quanto riguarda la tutela giurisdizionale amministrativa, di individuare e circoscrivere l’ambito della “collettività” legittimate a invocare la tutela.

3.4. Ulteriore rilievo, frequente in dottrina, è che sarebbe contraddittorio concedere onerosi risarcimenti dei danni derivanti da lesioni gravissime e negarli del tutto nel caso di illecita privazione della vita, con ciò contraddicendo sia il principio della necessaria integralità del risarcimento che la funzione deterrente che dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile e che dovrebbe portare a introdurre anche nel nostro ordinamento la categoria dei danni punitivi.

L’argomento (“è più conveniente uccidere che ferire”), di indubbia efficacia retorica, è in realtà solo suggestivo, perchè non corrisponde al vero che, ferma la rilevantissima diversa entità delle sanzioni penali, dall’applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche dell’illecita privazione della vita siano in concreto meno onerose per l’autore dell’illecito di quelle che derivano dalle lesioni personali, essendo indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi, comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore.

Peraltro è noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132 del 1985, n. 369 del 1996, n. 148 del 1999) il principio dell’integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale ed è quindi compatibile con l’esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che in una perdita che richiede l’esistenza di un soggetto che tale perdita subisce.

Del pari non appare imposta da alcuna norma o principio costituzionale un obbligo del legislatore di prevedere che la tutela penale sia necessariamente accompagnata da forme di risarcimento che prevedano la riparazione per equivalente di ogni perdita derivante da reato anche quando manchi un soggetto al quale la perdita sia riferibile.

Da quanto già rilevato, inoltre, la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704 del 1997, n. 3592 del 1997, n. 491 del 1999, n. 12253 del 2007, n. 6754/2011) e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi” (Cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito.

3.5. Pur non contestando il principio pacificamente seguito dalla giurisprudenza di questa Corte (in adesione a un’autorevole dottrina e in conformità con quanto affermato da Corte cost. n. 372 del 1994) secondo il quale i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell’evento lesivo, in sè considerato, si è affermato con la sentenza n. 1361 del 2014 che il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell’evento lesivo che, salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale, ponendosi come eccezione a tale principio della risarcibilità dei soli “danni conseguenza”.

Ma, a parte che l’ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l’anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” e il “bene vita” sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità.

Peraltro, se tale anticipazione fosse imposta dalla difficoltà di quantificazione del lasso di tempo intercorrente tra morte (da intendersi sempre processo mortale e non come evento istantaneo) e lesione, necessario a far sorgere nel patrimonio della vittima il credito risarcitorio, sarebbe facile osservare, da un lato, che da punto di vista giuridico è sempre necessario individuare un momento convenzionale di conclusione del processo mortale, come descritto dalla scienza medica, al quale legare la nascita del credito, e dall’altro, che l’individuazione dell’intervallo di tempo tra morte e lesione, rilevante ai fini del riconoscimento del credito risarcitorio, è operazione ermeneutica certamente delicata e che presenta margini di incertezza, ma del tutto conforme a quella che il giudice è costantemente impegnato ad operare quando è costretto a fare applicazione di concetti generali e astratti.

  1. Con il sesto motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 2, 29 e 30 cost. e dell’art. 2043, nonchè dell’art. 112 c.p.c. Premessa la distinzione tra danno morale e danno esistenziale, per perdita del rapporto parentale conseguente alla morte del congiunto, i ricorrenti lamentano che la corte territoriale non si sia pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno esistenziale, avendo affermato che tale danno era stato risarcito dal tribunale con la liquidazione equitativa complessiva del danno morale.

Con il settimo motivo i ricorrenti ribadiscono che la corte territoriale non avrebbe fornito alcuna motivazione del rigetto della domanda di risarcimento del danno esistenziale.

I motivi sono infondati. Premesso che la corte territoriale, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, ha motivato, richiamando e condividendo quanto operato dal tribunale, la liquidazione unitaria del danno, avendo considerato, al momento della relativa quantificazione, tanto quello di tipo relazionale quanto la sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale, e quindi non ha omesso di valutare il relativo capo di domanda, deve anche osservarsi che, come affermato da queste sezioni unite con le sentenze 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975 non sono configurabili, all’interno della categoria generale del danno non patrimoniale, cioè del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, autonome sottocategorie di danno, perchè se in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all’art. 2059 c.c.

Poichè la presente decisioni trae origine da un contrasto insorto nella giurisprudenza della Corte le spese del presente giudizio possono essere interamente compensate.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 17 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2015