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FORLI STALKING CASSAZIONE AVVOCATO PENALISTA

FORLI STALKING CASSAZIONE AVVOCATO PENALISTA STALKING CASSAZIONE

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AVVOCATO PENALISTA ESPERTO BOLOGNA DIFENDE A FORLI RIMINI RAVENNA CESENA IN SEDE PENALE E APPELLO BOLOGNA

Gli Studi Legali dell’Avvocato SERGIO ARMAROLI DI BOLOGNA  assicurano serietà, preparazione e competenza ed ispirano la loro attività nella consapevolezza che il rapporto tra cliente e avvocato penalista è fondato sulla assoluta fiducia che l’assistito deve nutrire nei confronti del professionista al quale affida la tutela della propria vicenda legale.

 

Nel primo colloquio con l’avvocato Sergio Armaroli

l’assistito viene informato in maniera analitica di tutti gli aspetti e le problematiche che il caso presenta oltre che delle possibili conseguenze di ogni scelta processuale Con la massima correttezza l’avvocato Sergio Armaroli all’atto del conferimento dell’incarico professionale viene sottoscritto apposito contratto con preventivo  .

 

avvocatiabologna esperti

 

l’imputabilità non è un presupposto della colpevolezza, concernendo quest’ultima il reato e non il reo, ma costituisce la condizione per l’affermazione della responsabilità in ordine al reato commesso, il quale dovrà, pertanto, essere già stato compiutamente qualificato, nelle sue connotazioni oggettive e soggettive per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente (Sez. 1, n. 507 del 07/12/1993, dep. 1994, Mitrugno, Rv. 196112). L’imputabilità, dunque, attiene alla sfera della concreta punibilità del reo come emerge letteralmente dall’art. 85 c.p., secondo cui nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile, per tale dovendosi reputare chi ha capacità d’intendere e di volere. Tanto premesso, devesi aggiungere che la prescrizione ex art. 157 c.p. agisce quale causa estintiva del reato e nella scansione del tempo necessario alla perenzione della pretesa punitiva statuale il legislatore con la riforma di cui alla L. 251/2005 ha dato rilievo alle aggravanti ad effetto speciale, tra cui le ipotesi di recidiva qualificata, senza che sia configurabile alcuna lesione del principio di uguaglianza in relazione all’inimputabile, dovendosi escludere l’incompatibilità di siffatte circostanze con l’accertato vizio totale di mente dell’agente in considerazione dei diversi piani su cui operano gli istituti che si assumono confliggenti con le norme costituzionali.

ANALISI DELLA CORTE SUPREMA

La giurisprudenza di legittimità a far data dalla sentenza Donati delle Sezioni Unite ha evidenziato come, ai fini della preclusione connessa al principio del “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799).

Anche successivamente alla richiamata pronunzia appare del tutto maggioritaria nell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità l’affermazione che il fatto che rileva, ai fini del divieto di bis in idem, è quello storico-naturalistico, ossia l’accadimento materiale che, quantunque selezionato secondo criteri normativi, nel raffronto ai fini della delibazione preclusiva prescinde dall’inquadramento giuridico che ne è stato dato, in conformità alle pronunzie della CEDU che – alla luce dell’art. 4 del Prot. 7 – impongono di interpretare la medesimezza del fatto alla stregua delle concrete circostanze di fatto e spazio temporali che caratterizzano la condotta, negando fondamento alla tesi che valorizza l’identità della fattispecie astratta contestata (Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia). Da ultimo in tal senso Sez. 4, n. 3315 del 06/12/2016, Shabani, Rv. 269223; Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti e altro, Rv. 268502 secondo cui ai fini della preclusione del “ne bis in idem”, l’identità del fatto deve essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato e della nuova contestazione, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato.

Siffatta interpretazione ha trovato autorevole avallo nella sentenza 200/2016 della Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto conforme alla giurisprudenza comunitaria l’indirizzo espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite Donati in quanto improntata alla valorizzazione del criterio dell’idem factum, quantunque “scomposto” e segmentato nella triade di condotta, nesso di causalità ed evento naturalistico e sempre che tali elementi siano apprezzati nella loro dimensione empirica, censurando la sotterranea emersione di difformi orientamenti che vorrebbero il giudizio sulla medesimezza del fatto ancorato anche alla dimensione giuridica dell’accadimento naturalistico, con conseguente recupero del criterio dell’idem legale di cui si esclude la compatibilità con la Carta Costituzionale e la CEDU. In detta ottica la Corte Costituzionale, di fatto estendendo i limiti d’operatività del divieto di bis in idem processuale, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in rel. all’art. 4 del Prot. 7 della CEDU nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussista un concorso formale tra il reato già irrevocabilmente giudicato e il reato in relazione al quale è iniziato nuovo procedimento, pur precisando che sul piano sostanziale le diverse ipotesi continuano ad essere legittimamente contestabili e giudicabili nell’ambito di un simultaneus processus. Tanto al fine di evitare il rischio “che la proliferazione di figure di reato alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto offra l’occasione di iniziative punitive…tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello stato-apparato”.

8.2 Nella specie, nondimeno, effettuata la sopradetta precisazione, deve rilevarsi che la contestazione ex art. 612 bis c.p. operata a carico dell’imputato non esaurisce i contenuti delle azioni persecutorie in quelle oggetto di separato giudizio ma individua, anche per relationem con riguardo a ben 17 denunzie sporte dalle pp.00. da giugno 2007 a marzo 2009, una pluralità di condotte rilevanti alla stregua delle fattispecie di molestie, minacce, ingiurie, violazione di domicilio, lesioni personali, violenza privata, idonee a cagionare alle vittime un grave e protratto stato di ansia e l’alterazione delle abitudini di vita, sicchè l’identità del fatto storico limitata agli episodi autonomamente giudicati non è suscettibile di incidere sul contestato e ritenuto reato abituale che, per la molteplicità e reiterazione delle aggressioni patite dalle pp.00., non appare inficiato dall’eccezione difensiva. Infatti, la sequela di comportamenti illeciti sfociati negli eventi tipici dello stalking ed unificati dal peculiare dolo persecutorio mantiene integra la struttura costitutiva dell’illecito anche in esito all’espunzione delle condotte singolarmente giudicate.

8.3 Con riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti contestati ai sensi dell’art. 612bis c.p. sebbene la difesa ne assuma la consumazione in epoca precedente l’introduzione nel sistema della specifica norma incriminatrice, deve rilevarsi che -secondo il costante avviso della giurisprudenza di legittimità- il delitto di atti persecutori è configurabile nella ipotesi in cui, pur essendo la condotta persecutoria iniziata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti la commissione reiterata, anche dopo l’entrata in vigore del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. in L. 23 aprile 2009, n. 38, di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo “status” di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura (Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 – dep. 2013, D., Rv. 255330; n. 18999 del 19/02/2014, C e altro, Rv. 260410; n. 48268 del 27/05/2016, D, Rv. 268162).

Nella specie, in epoca successiva al 23 febbraio 2009 risultano presentate dalla p.o. A.A. ben quattro denunzie, l’una il (OMISSIS), le seguenti in data (OMISSIS), che danno fondamento alla tesi di una significativa reiterazione di atti persecutori nei confronti della vittima nella vigenza della disposizione incriminatrice e siffatta emergenza non risulta decisivamente contrastata dal ricorrente che si limita e rilevare l’impossibilità di tener conto del tentativo di investimento del sette marzo, denunziato il giorno successivo, senza confrontarsi con le evidenze acquisite in atti, le quali attestano che in data (OMISSIS) (pag. 17 sent. primo grado) il ricorrente aveva gravemente danneggiato infissi, vetri e muri dell’abitazione delle pp.00., aveva sottratto utensili, danneggiato la Fiat 500 di proprietà della A., urtandola deliberatamente, e alcuni giorni dopo, il (OMISSIS) aveva reiteratamente telefonato alla stessa A. formulando minacce di morte, fatti che avevano determinato l’intervento dei c.c. e il conseguente arresto del T..

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AVVOCATO PENALISTA ESPERTO BOLOGNA DIFENDE A FORLI RIMINI RAVENNA CESENA IN SEDE PENALE E APPELLO BOLOGNA

Gli Studi Legali dell’Avvocato SERGIO ARMAROLI DI BOLOGNA  assicurano serietà, preparazione e competenza ed ispirano la loro attività nella consapevolezza che il rapporto tra cliente e avvocato penalista è fondato sulla assoluta fiducia che l’assistito deve nutrire nei confronti del professionista al quale affida la tutela della propria vicenda legale.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGO Geppino – Presidente –

Dott. DE SANTIS Anna Maria – rel. Consigliere –

Dott. PARDO Ignazio – Consigliere –

Dott. COSCIONI Giuseppe – Consigliere –

Dott. SARACO A. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

T.F., n. a (OMISSIS);

avverso la sentenza resa dalla Corte di Appello di Bologna in data il giorno 1/2/2019;

visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;

udita la relazione del Cons. Dott. Anna Maria De Santis;

letta la requisitoria del P.G., Dott. Romano Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

letta la memoria a firma del difensore del ricorrente pervenuta in data 4/12/2020.

Svolgimento del processo

  1. Con l’impugnata sentenza la Corte d’Appello di Bologna, in riforma della decisione del Tribunale di Rimini in data 4/10/2016, assolveva l’imputato dai reati di atti persecutori, estorsione, resistenza e lesione a P.U. ed altri ritenuti in primo grado perchè non imputabile ai sensi dell’art. 88c.p., revocava le statuizioni civili e ordinava il ricovero del prevenuto presso la REMS di riferimento per un periodo non inferiore ad anni due.
  2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore del T., Avv. Nadia Saccoccio, deducendo:

2.1 la nullità ex art. 178 c.p.p. del giudizio di primo grado e degli atti conseguenti per omessa notifica all’imputato e al difensore del verbale dell’udienza del 31/10/2012 nel corso della quale, il giudice – ritenuto il legittimo impedimento dell’imputato – disponeva il rinvio all’udienza del 20/5/2013 senza che l’adempimento in quella sede disposto fosse eseguito presso il difensore domiciliatario. Sostiene la difesa che la comunicazione del rinvio effettuata a mezzo fax presso la comunità ove l’imputato era ospitato in data 31/10/2012 non è mai pervenuta a destinazione, come documentalmente attestato dal sacerdote Don N.N. e la notifica successivamente disposta fu eseguita ex art. 161 c.p.p., comma 4, presso il difensore senza disporre nuove ricerche ed emettere decreto di irreperibilità. La Corte territoriale nel disattendere la proposta eccezione non ha considerato l’elezione di domicilio del T. presso l’Avv. Del Bianco, mai revocata, ritenendo corretta la notificazione ex art. 161 c.p.p., comma 4, con conseguente nullità nell’instaurazione del rapporto processuale;

2.2 la violazione di legge con riguardo al computo della prescrizione poichè al totalmente incapace non può applicarsi la recidiva neanche a fini prescrizionali. La difesa sostiene che il soggetto totalmente incapace non può essere soggetto alla disciplina prescrizionale differenziata per effetto della recidiva giacchè il suo status è incompatibile con il giudizio di maggior disvalore che fonda l’aggravante con la conseguenza che lo stesso deve essere assoggettato alla prescrizione ordinaria;

2.3 questione di costituzionalità in ordine all’applicazione della recidiva a fini prescrizionali al totalmente incapace per violazione degli artt. 3 e 111 Cost. nella parte in cui si parifica l’incapace al capace ed al seminfermo, applicando le aggravanti soggettive ai fini degli artt. 157 e 161 c.p., nonostante la recidiva sia incompatibile con lo status dell’imputato;

2.4 la violazione di legge in relazione al computo dei periodi di sospensione dei termini di prescrizione operati dalla Corte territoriale con determinazione pari ad anni due, mesi sette e giorni undici invece che anni due e giorni diciotto, con la conseguenza che, esclusa la recidiva, tutte le condotte contestate al prevenuto fino al 7/3/2009, data in cui fu tratto in arresto, risultano estinte per prescrizione prima del processo d’appello o immediatamente dopo;

2.5 violazione del principio del ne bis in idem in relazione agli episodi contestati al capo A) di cui al proc. n. 1921/09 rispetto ai fatti contestati nel proc. n. 1397/09 del Tribunale di Forlì, conclusosi con sentenza n. 582/2010 della Corte d’Appello di Bologna, in quanto l’episodio dell’investimento di C.A., B.D. e A.A. e le telefonate intimidatorie ai danni di quest’ultima sono già stati oggetto della richiamata sentenza della Corte d’Appello sicchè, avuto riguardo all’identità dei fatti, si sarebbe dovuta rilevare la preclusione del giudicato;

2.6 la violazione di legge in quanto gli eventi qualificati come atti persecutori ai sensi dell’art. 612 bis c.p., diversi dalle condotte coperte da giudicato di cui al precedente motivo, sono state poste in essere prima del 24/2/09 e, quindi, in epoca anteriore all’introduzione della norma incriminatrice, profilo in ordine al quale la sentenza impugnata ha omesso la motivazione, limitandosi al mero richiamo di un precedente di legittimità;

2.7 la mancanza di motivazione circa l’inidoneità delle minacce poste in essere dall’imputato a configurare il delitto ex art. 629 c.p. Deduce il ricorrente che la Corte territoriale ha trascurato di considerare il gravame sul punto sebbene la difesa avesse argomentato l’impossibilità di ritenere concrete le richieste di danaro rivolte alla A. alla luce delle circostanze fattuali in cui erano state avanzate e della personalità dell’agente;

2.8 la mancanza di motivazione in ordine all’alternativa qualificazione del fatto d’estorsione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, oggetto del sesto motivo d’appello, con il quale si rappresentava che le richieste di danaro del T. erano la risposta provocatoria alla pretesa di Bu.Ro., manifestata a S.A., di acquistare la casa di proprietà dell’imputato previa eliminazione del diritto d’abitazione dello stesso;

2.9 la violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2, in relazione al capo A) del proc. 5508/2011 e l’omessa motivazione in ordine al settimo motivo d’appello, nonostante l’insufficienza delle pretese ammissioni effettuate alla p.o. Bu. dall’imputato, affetto da disturbo narcisistico e paranoide della personalità, e l’assenza di riscontri circa l’affermata responsabilità per il delitto ex art. 624 bis c.p.;

2.10 l’omessa valutazione della CTU F., costituente prova decisiva con riguardo al giudizio di pericolosità del ricorrente. La difesa lamenta che i giudici di merito nell’esame della pericolosità del T. hanno trascurato la perizia svolta dal Dott. F. che, nel 2010, su incarico del Gip, aveva visitato l’imputato, escludendone la pericolosità, valutazione cui faceva seguito la revoca della misura di sicurezza provvisoria;

2.11 l’illegittima applicazione della misura di sicurezza del ricovero in REMS in assenza di indici attuali dai quali desumere la pericolosità sociale del ricorrente e la violazione della L. n. 81 del 2014. Osserva la difesa che il giudizio sulla pericolosità del T. è stato fondato sugli esiti di accertamenti tecnici di natura documentale sicchè, in ragione della perdurante irreperibilità dello stesso e della conseguente impossibilità di verificarne in termini attuali il rischio di recidivanza, la misura del ricovero presso una Rems deve ritenersi adottata in assenza dei presupposti di legge.

2.12 Con memoria difensiva pervenuta il 4/12/2020 la difesa ha ulteriormente eccepito la mancata notifica della sentenza di secondo grado e dell’avviso relativo all’odierna udienza di trattazione del ricorso al domiciliatario Del Bianco Fabiomassimo e ha approfondito i motivi 10 e 11 del ricorso principale, replicando alle conclusioni del Procuratore Generale.

Motivi della decisione

  1. Deve preliminarmente rilevarsi l’inammissibilità delle nullità dedotte con la memoria difensiva ex art. 121c.p.p. Quanto alla mancata notifica al domiciliatario dell’odierna udienza osserva il Collegio che, a norma dell’art. 613c.p.p., davanti alla Corte di Cassazione le parti sono rappresentate dai difensori presso cui le stesse sono domiciliate ex lege. Nel caso di specie la difesa lamenta che l’avviso d’udienza non è stato notificato al domiciliatario del ricorrente che, in quanto designato alla ricezione degli atti per conto dell’imputato, non aveva alcun diritto alla notifica che si assume illegittimamente omessa.

Con riguardo all’eccepita mancata notifica al domiciliatario della sentenza di secondo grado deve innanzitutto rilevarsi che trattasi di motivo nuovo, non proposto nel ricorso principale e, comunque, tardivo in quanto il termine di quindici giorni per il deposito delle memorie difensive e motivi nuovi, previsto dall’art. 611 c.p.p. relativamente al procedimento in camera di consiglio, è applicabile anche ai procedimenti in udienza pubblica e la sua inosservanza esime la Corte di cassazione dall’obbligo di prendere in esame le deduzioni contenute in detti atti (Sez. 6, n. 11630 del 27/02/2020, A, Rv. 278719; Sez. 3, n. 14038 del 12/12/2017, dep. 2018, Faldini e altri, Rv. 272553). A tanto aggiungasi che alla sentenza impugnata si applica integralmente la disciplina dell’assenza e all’imputato assente non spettava alcuna notifica della stessa.

  1. L’eccezione di nullità formulata con il primo motivo è manifestamente infondata. Il difensore lamenta la mancata notifica all’imputato del verbale dell’udienza tenutasi in data 31/10/2012, rinviata per legittimo impedimento dell’imputato, all’epoca sottoposto a misura di sicurezza provvisoria presso la Comunità di (OMISSIS). Anche a voler ritenere provato che il fax trasmesso alle ore 16,36 dello stesso giorno all’imputato presso la suddetta Comunità non sia mai stato portato a conoscenza del medesimo, correttamente il giudice d’appello ha rilevato la tardività dell’eccezione dal momento che nulla veniva dedotto dal difensore all’udienza di rinvio del 20/5/2013 nè alle successive del 18/6/e 9/7/2013 (quest’ultima differita per astensione del legale dall’attività professionale). Come evidenziato dalla sentenza impugnata la questione veniva sollevata esclusivamente con memoria depositata il 10/7/2013, quindi in maniera intempestiva, sicchè, attesa l’intervenuta sanatoria, la successiva rinnovazione disposta dal giudice ex art. 161, comma 4, a mani del difensore di fiducia, non era dovuta e risultano per l’effetto preclusi gli ulteriori profili di invalidità denunziati.

Questa Corte ha chiarito che l’omessa notifica all’imputato – al quale sia ritualmente notificato il decreto di citazione a giudizio – dell’avviso di fissazione della nuova udienza, nel caso di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento del medesimo imputato, dà luogo ad una nullità a regime intermedio, come tale sanabile se non dedotta nei termini di cui all’art. 180 c.p.p. e, nel caso in cui la parte assista al compimento di atti che richiedano il predetto avviso, nei termini di cui all’art. 182 c.p.p., comma 2, (Sez. 5, n. 17027 del 23/01/2013, Musciolà,Rv. 255503; Sez. 6, n. 25500 del 28/04/2017, B, Rv. 270032).

  1. Quanto alle doglianze in tema di prescrizione formulate con il secondo e quarto motivo e all’eccezione di costituzionalità sollevata in ordine alla pretesa incompatibilità dell’aggravante soggettiva della recidiva con la condizione di infermo totale di mente al momento dei fatti v’è da osservare che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’imputabilità, quale capacità di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda (Sez. 6, n. 16260 del 10/03/2003, P.G. in proc. Cesarano, Rv. 225645). Pertanto, anche quando è stato commesso da soggetto non imputabile, il reato esiste, e non solo nella sua materialità, ma anche nell’elemento della colpevolezza (Sez. 1, n. 2268 del 05/07/1990, Ciardi, Rv. 184987) e va considerato, nella sua obiettività, come se fosse stato commesso da persona capace di intendere e di volere, e quindi discernendo non soltanto gli elementi per la qualificazione del dolo o della colpa, ma anche tutte le circostanze aggravanti o attenuanti che abbiano incidenza sull’entità del reato stesso e, quindi, sulla pericolosità del soggetto; ciò anche al fine di stabilire la durata minima della eventuale misura di sicurezza (Sez. 1, n. 8057 del 04/06/1992, Di Mauro, Rv. 191307).

In detta prospettiva, che muove dalla constatazione che il codice penale non considera incompatibili le nozioni di reato e non imputabilità dell’agente, come dimostrano le previsioni dell’art. 86 c.p., art. 111 c.p., comma 1 e art. 648 c.p., u.c., ed impone di accertare, comunque, l’appartenenza psichica del fatto al soggetto che l’ha commesso, il giudice è chiamato a considerare il fatto illecito nella sua obiettività, scrutinando gli elementi utili per la qualificazione dell’elemento psicologico e la determinazione dell’assetto circostanziale, trattandosi di accertamenti funzionali al giudizio di pericolosità sociale e a stabilire la durata minima della misura di sicurezza ex art. 222 c.p., la quale si pone in stretto rapporto con la gravità del fatto commesso, il cui prioritario criterio di stima si desume dalla pena per esso prevista.

Pertanto, deve escludersi la ravvisabilità di qualsivoglia incompatibilità strutturale tra la recidiva e la condizione di soggetto inimputabile per vizio totale di mente dell’autore del fatto criminoso giacchè l’accertamento dei profili soggettivi dell’azione illecita, seppur finalizzato esclusivamente al giudizio di pericolosità, legittima ai richiamati fini il giudizio di ingravescente pericolosità dell’agente ed, anzi, costituisce un indicatore specifico e privilegiato del rischio di recidivanza e del suo grado ed intensità.

  1. Con riguardo alla proposta eccezione di costituzionalità, la difesa sostiene che la parificazione del capace all’incapace e al seminfermo ai fini del computo dei termini di prescrizione in caso di contestazione della recidiva qualificata violi gli artt. 3 e 111 della Carta Costituzionale in ragione dell’incompatibilità delle aggravanti soggettive, tra cui quella ex art. 99c.p., con la condizione di infermo di mente.

La tesi è per più versi manifestamente infondata. Infatti, come sopra chiarito, l’imputabilità non è un presupposto della colpevolezza, concernendo quest’ultima il reato e non il reo, ma costituisce la condizione per l’affermazione della responsabilità in ordine al reato commesso, il quale dovrà, pertanto, essere già stato compiutamente qualificato, nelle sue connotazioni oggettive e soggettive per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente (Sez. 1, n. 507 del 07/12/1993, dep. 1994, Mitrugno, Rv. 196112). L’imputabilità, dunque, attiene alla sfera della concreta punibilità del reo come emerge letteralmente dall’art. 85 c.p., secondo cui nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui lo ha commesso non era imputabile, per tale dovendosi reputare chi ha capacità d’intendere e di volere. Tanto premesso, devesi aggiungere che la prescrizione ex art. 157 c.p. agisce quale causa estintiva del reato e nella scansione del tempo necessario alla perenzione della pretesa punitiva statuale il legislatore con la riforma di cui alla L. 251/2005 ha dato rilievo alle aggravanti ad effetto speciale, tra cui le ipotesi di recidiva qualificata, senza che sia configurabile alcuna lesione del principio di uguaglianza in relazione all’inimputabile, dovendosi escludere l’incompatibilità di siffatte circostanze con l’accertato vizio totale di mente dell’agente in considerazione dei diversi piani su cui operano gli istituti che si assumono confliggenti con le norme costituzionali.

  1. Quanto ai rilievi in punto di prescrizione osserva la Corte che le doglianze difensive sono palesemente infondate. La Corte territoriale ha sì errato nel computo dei termini ma a beneficio del prevenuto, ritenendo per ciascun addebito un periodo prescrittivo inferiore a quello correttamente determinato ai sensi degli artt. 157161c.p..

Invero, risulta che in relazione a tutti i procedimenti riuniti sia stata contestata la recidiva reiterata ex art. 99 c.p., comma 4, la quale comporta in relazione ai delitti di atti persecutori, resistenza e lesioni a P.u., tentata estorsione e danneggiamento aggravato contestati nel procedimento n. 1545/10 R.G.T. un aumento di pena della metà mentre i residui addebiti risultano aggravati dalla recidiva qualificata con un aumento pari a due terzi della pena da infliggere. La Corte di merito, tuttavia, non ha tenuto conto, ad esempio nel determinare il tempo necessario a prescrivere i fatti ex art. 612 bis e 337 c.p. ascritti nel proc. 1545/10, gravati da recidiva reiterata in relazione all’art. 99, comma 1, che l’aumento della metà prescritto dall’art. 99, comma 4, applicata la proroga per gli atti interruttivi ex art. 161 c.p., comporta un termine complessivo di anni 11, mesi tre, cui debbonsi aggiungere le sospensioni che la difesa opina ammontare ad anni due e gg. diciotto in luogo del maggior computo effettuato dalla Corte distrettuale. Quanto ai fatti residui aggravati da recidiva qualificata, la violazione di domicilio di cui al proc. 91/2012, assoggettata al termine più breve decennale, computata la sospensione nella misura indicata dalla difesa è venuta a scadenza nel luglio 2019, in epoca ben successiva alla pronunzia d’appello con la conseguenza che l’impugnazione s’appalesa del tutto generica nell’indicazione delle fattispecie che si assumono perente in epoca antecedente la pronunzia impugnata e dimostra piuttosto di far leva sull’esclusione della recidiva quale elemento determinante ai fini della dedotta maturazione della causa estintiva. Non è fuor di luogo aggiungere che la complessiva inammissibilità dell’odierna impugnazione, impedendo l’instaurazione del contraddittorio di legittimità, impedisce la rilevazione della causa estintiva maturata in epoca successiva alla decisione d’appello.

  1. Con riguardo ai motivi sub 2.5 e 2.6, la Corte territoriale a pag. 20 ha disatteso l’eccezione di ne bis in idem relativa alla ricomprensione tra le condotte ex art. 612 bisc.p. anche dell’investimento di A.A., C.A. e B.D., verificatosi in data (OMISSIS), e del furto in abitazione ai danni della stessa A., oggetto di separato giudizio da parte del Tribunale di Forlì, osservando che l’imputato ha violato con tali condotte più norme di legge e il concorso formale giustifica la duplicazione dei giudizi.

8.1 La giurisprudenza di legittimità a far data dalla sentenza Donati delle Sezioni Unite ha evidenziato come, ai fini della preclusione connessa al principio del “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799).

Anche successivamente alla richiamata pronunzia appare del tutto maggioritaria nell’elaborazione della giurisprudenza di legittimità l’affermazione che il fatto che rileva, ai fini del divieto di bis in idem, è quello storico-naturalistico, ossia l’accadimento materiale che, quantunque selezionato secondo criteri normativi, nel raffronto ai fini della delibazione preclusiva prescinde dall’inquadramento giuridico che ne è stato dato, in conformità alle pronunzie della CEDU che – alla luce dell’art. 4 del Prot. 7 – impongono di interpretare la medesimezza del fatto alla stregua delle concrete circostanze di fatto e spazio temporali che caratterizzano la condotta, negando fondamento alla tesi che valorizza l’identità della fattispecie astratta contestata (Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia). Da ultimo in tal senso Sez. 4, n. 3315 del 06/12/2016, Shabani, Rv. 269223; Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti e altro, Rv. 268502 secondo cui ai fini della preclusione del “ne bis in idem”, l’identità del fatto deve essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato e della nuova contestazione, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato.

Siffatta interpretazione ha trovato autorevole avallo nella sentenza 200/2016 della Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto conforme alla giurisprudenza comunitaria l’indirizzo espresso dalla sentenza delle Sezioni Unite Donati in quanto improntata alla valorizzazione del criterio dell’idem factum, quantunque “scomposto” e segmentato nella triade di condotta, nesso di causalità ed evento naturalistico e sempre che tali elementi siano apprezzati nella loro dimensione empirica, censurando la sotterranea emersione di difformi orientamenti che vorrebbero il giudizio sulla medesimezza del fatto ancorato anche alla dimensione giuridica dell’accadimento naturalistico, con conseguente recupero del criterio dell’idem legale di cui si esclude la compatibilità con la Carta Costituzionale e la CEDU. In detta ottica la Corte Costituzionale, di fatto estendendo i limiti d’operatività del divieto di bis in idem processuale, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in rel. all’art. 4 del Prot. 7 della CEDU nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussista un concorso formale tra il reato già irrevocabilmente giudicato e il reato in relazione al quale è iniziato nuovo procedimento, pur precisando che sul piano sostanziale le diverse ipotesi continuano ad essere legittimamente contestabili e giudicabili nell’ambito di un simultaneus processus. Tanto al fine di evitare il rischio “che la proliferazione di figure di reato alle quali in astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto offra l’occasione di iniziative punitive…tali da porre perennemente in soggezione l’individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello stato-apparato”.

8.2 Nella specie, nondimeno, effettuata la sopradetta precisazione, deve rilevarsi che la contestazione ex art. 612 bis c.p. operata a carico dell’imputato non esaurisce i contenuti delle azioni persecutorie in quelle oggetto di separato giudizio ma individua, anche per relationem con riguardo a ben 17 denunzie sporte dalle pp.00. da giugno 2007 a marzo 2009, una pluralità di condotte rilevanti alla stregua delle fattispecie di molestie, minacce, ingiurie, violazione di domicilio, lesioni personali, violenza privata, idonee a cagionare alle vittime un grave e protratto stato di ansia e l’alterazione delle abitudini di vita, sicchè l’identità del fatto storico limitata agli episodi autonomamente giudicati non è suscettibile di incidere sul contestato e ritenuto reato abituale che, per la molteplicità e reiterazione delle aggressioni patite dalle pp.00., non appare inficiato dall’eccezione difensiva. Infatti, la sequela di comportamenti illeciti sfociati negli eventi tipici dello stalking ed unificati dal peculiare dolo persecutorio mantiene integra la struttura costitutiva dell’illecito anche in esito all’espunzione delle condotte singolarmente giudicate.

8.3 Con riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti contestati ai sensi dell’art. 612bis c.p. sebbene la difesa ne assuma la consumazione in epoca precedente l’introduzione nel sistema della specifica norma incriminatrice, deve rilevarsi che -secondo il costante avviso della giurisprudenza di legittimità- il delitto di atti persecutori è configurabile nella ipotesi in cui, pur essendo la condotta persecutoria iniziata in epoca anteriore all’entrata in vigore della norma incriminatrice, si accerti la commissione reiterata, anche dopo l’entrata in vigore del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. in L. 23 aprile 2009, n. 38, di atti di aggressione e di molestia idonei a creare nella vittima lo “status” di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura (Sez. 5, n. 10388 del 06/11/2012 – dep. 2013, D., Rv. 255330; n. 18999 del 19/02/2014, C e altro, Rv. 260410; n. 48268 del 27/05/2016, D, Rv. 268162).

Nella specie, in epoca successiva al 23 febbraio 2009 risultano presentate dalla p.o. A.A. ben quattro denunzie, l’una il (OMISSIS), le seguenti in data (OMISSIS), che danno fondamento alla tesi di una significativa reiterazione di atti persecutori nei confronti della vittima nella vigenza della disposizione incriminatrice e siffatta emergenza non risulta decisivamente contrastata dal ricorrente che si limita e rilevare l’impossibilità di tener conto del tentativo di investimento del sette marzo, denunziato il giorno successivo, senza confrontarsi con le evidenze acquisite in atti, le quali attestano che in data (OMISSIS) (pag. 17 sent. primo grado) il ricorrente aveva gravemente danneggiato infissi, vetri e muri dell’abitazione delle pp.00., aveva sottratto utensili, danneggiato la Fiat 500 di proprietà della A., urtandola deliberatamente, e alcuni giorni dopo, il (OMISSIS) aveva reiteratamente telefonato alla stessa A. formulando minacce di morte, fatti che avevano determinato l’intervento dei c.c. e il conseguente arresto del T..

  1. Con riguardo alle fattispecie di estorsione tentata in relazione alle quali la difesa assume il difetto di motivazione sia in punto di idoneità delle minacce che di alternativa qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 393c.p. v’è da rilevare che la Corte territoriale (pag. 8) si è limitata a un generico richiamo per relationem della sentenza di primo grado, che alle pagg. 20 e 21 ha congruamente scrutinato gli elementi costitutivi degli illeciti ascritti ai capi i) del proc. n. 1545/2010 e d) del proc. n. 91/2012. L’inammissibilità delle censure difensive sul punto consegue al rilievo che la genericità e manifesta infondatezza delle doglianze proposte in sede di appello erano, comunque, inidonee a fondare la devoluzione e il correlativo onere di motivazione dei giudici d’appello. Infatti, con riguardo alla pretesa inidoneità della minaccia il primo giudice ha spiegato che le prime richieste di danaro furono avanzate dal T. nell'(OMISSIS) nei confronti di Bu.Ro. e paventavano che in assenza di corresponsione di “un’offerta” il ricorrente avrebbe reso impossibile la vita a lui e alla sua famiglia. Successivamente le richieste venivano reiterate con quantificazione della somma da versare in Euro 100mila o in un’offerta per la casa di campagna che egli abitava, poste quale condizioni per essere “lasciati in pace”, in seguito lievitata ad Euro 150nni1a. Il primo giudice a pag. 18 ha – altresì – chiarito, escludendo che la famiglia Bu. potesse aver dato adito a condotte ritorsive del prevenuto, che la denunzia dello S. richiamata dalla difesa risale all'(OMISSIS) (allorchè la prima richiesta estorsiva era già stata formulata) e che Bu.Ro. con tono aggressivo intimò allo S. di convincere il T. ad abbandonare l’abitazione quando già i componenti del nucleo familiare erano stati oggetto di ripetuti atti di molestia ed intimidazione.

Deve analogamente osservarsi che è destituita di pregio la tesi relativa alla possibilità di sussunzione dei fatti qualificati come estorsivi nell’alveo dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone difettando, nella specie, alla luce delle sentenze di merito e delle stesse allegazioni difensive, l’esistenza di un diritto dell’imputato suscettibile di essere azionato in giudizio e la cui tutela il ricorrente avrebbe inteso perseguire, seppure con mezzi illeciti, facendosi giustizia da se medesimo.

Quanto al delitto di furto contestato al capo A) del proc.n. 5508/2011 e all’omessa motivazione in ordine alle censure svolte nel settimo motivo d’appello deve analogamente rilevarsi che a fondamento dell’affermazione di responsabilità il primo giudice (pag. 21/23) ha posto in relazione ad entrambi gli episodi le convergenti dichiarazioni delle pp.00. e la rivendicazione da parte del prevenuto delle sottrazioni, inscrivendo le condotte nell’ambito del multiforme disegno persecutorio nei confronti delle vittime, la cui attendibilità il Tribunale ha adeguatamente motivato mentre il gravame che si assume inevaso lamentava l’assenza di riscontro alle propalazioni dei denunzianti e qualificava apoditticamente la rivendicazione dei furti da parte del ricorrente quale espressione del disturbo paranoide che l’affligge.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato, con affermazione che la Corte condivide, che in tema di impugnazioni è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello, che risulti ab origine inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (Sez. 2,n. 10173 del 16/12/2014, dep. 2015, Bianchetti, Rv. 263157; n. 35949 del 20/06/2019, Liberti, Rv. 276745; Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, Bercigli, Rv.277281).

10) I motivi dieci e undici concernono il giudizio di pericolosità formulato dalla Corte territoriale nei confronti del T. e denunziano l’omessa considerazione della perizia del Dott. F., ritenuta prova decisiva, nonchè l’assenza di indici attuali da cui desumere la pericolosità posta a fondamento della misura di sicurezza applicata, essendo il prevenuto irreperibile dal 2012. Destituita di fondamento è la pretesa e decisiva omissione valutativa della perizia F., giacchè, come ricordato dal primo giudice a pag. 25, il perito aveva concluso nel senso di una pericolosità del T. “particolarmente elevata” in un contesto di capacità di intendere e di volere fortemente scemata. All’esito della verifica semestrale effettuata dallo stesso perito nell'(OMISSIS), allorchè l’imputato si trovava sottoposto alla misura di sicurezza provvisoria del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, il Dott. F. si esprimeva per il sopravvenuto difetto di pericolosità sociale dell’imputato, cui faceva seguito la revoca della misura provvisoriamente imposta.

Detta valutazione, resa in relazione a soggetto sottoposto da mesi a cure psichiatriche, e specificamente confutata con espressa e motivata adesione alle valutazioni in punto di imputabilità e pericolosità del consulente del P.m., Dott. An., non era suscettibile di costituire un vincolo per il collegio d’appello chiamato a valutare la pericolosità del ricorrente a distanza di nove anni e dopo che nell’anno (OMISSIS) era stata effettuata nuova perizia affidata al Dott. Sa., il quale sulla base della documentazione compulsata aveva confermato la diagnosi di disturbo paranoide e narcisistico della personalità che affligge il prevenuto, evidenziando la possibilità di fasi di quiescenza della malattia e di successive fasi caratterizzate dalla comparsa di manifestazioni acute e di agiti aggressivi e antisociali. La Corte di merito, pertanto, valorizzando le considerazioni medico legali dei vari professionisti coinvolti, all’esito di una articolata disamina, concludeva per la totale incapacità del prevenuto e, dato atto della risalente irreperibilità del T., riteneva, in ragione della patologia diagnosticata e dei gravi reati posti in essere, di poter formulare un giudizio di pericolosità sociale con conseguente applicazione della misura di sicurezza della REMS per un periodo di anni due.

Questa Corte ha costantemente affermato che il giudizio sulla pericolosità sociale, rilevante ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza, costituisce compito esclusivo del giudice che deve tenere conto non solo dei rilievi dei periti sulla personalità, sui problemi psichiatrici e sulla capacità criminale dell’imputato per valutare l’effettivo pericolo di recidiva, ma anche degli altri parametri desumibili dall’art. 133 c.p. (Sez. 1, n. 50164 del 16/05/2017, Carrara, Rv. 271404). Pertanto, la prognosi di pericolosità sociale non può limitarsi all’esame delle sole emergenze di natura medico-psichiatrica, ma implica la verifica globale delle circostanze indicate dall’art. 133 c.p., espressamente richiamato dall’art. 203 cit. codice, fra cui la gravità del reato commesso e la personalità del soggetto, così da approdare ad un giudizio di pericolosità quanto più possibile esaustivo e completo (Sez. 5, n. 43631 del 11/05/2017, C, Rv. 271008). Da siffatti principi la Corte di merito non si è discostata, esprimendo un argomentato giudizio, frutto della congiunta valutazione degli esiti peritali e degli specifici indicatori inerenti la gravità del fatto e la personalità del ricorrente, incensurabile in questa sede.

  1. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile con condanna del proponente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria nella misura precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d’esonero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2021

STALKING CASSAZIONE

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