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PARENTE MORTO OSPEDALE INFEZIONE COLPA MEDICI AVVOCATO ESPERTO DANNO

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AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CUASE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838 BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA 
AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CUASE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838 BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA

PARENTE MORTO OSPEDALE INFEZIONE COLPA MEDICI AVVOCATO ESPERTO DANNO

AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CAUSE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE

AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA 

Le infezioni ospedaliere soprattutto a chi è sottoposto a  gravi interventi chirurgici oa chi ha una situazione  medica complessa.

Le infezioni ospedaliere sono cause di molti decessi .

L’accettazione del paziente presso la struttura comporta l’assunzione dell’obbligo di salvaguardarlo in senso globale

Secondo la Cassazione, la decisione impugnata applica correttamente i principi consolidati nella giurisprudenza della stessa Corte, ai sensi della quale

AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CUASE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838 BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA 
AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CUASE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838 BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA

, ai sensi del quale l’accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta l’assunzione di una prestazione strumentale e accessoria – rispetto a quella principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la patologia del ricoverato – avente ad oggetto la salvaguardia della sua incolumità fisica e patrimoniale, quantomeno dalle forme più gravi di aggressione (Sez. 3, Sentenza n. 19658 del 18/09/2014, Rv. 632999 – 01). 10. Nella specie, una volta comprovata la riconducibilità causale del danno alla salute al fatto della struttura sanitaria che aveva accettato il ricovero della M., incombeva su detta struttura l’onere di fornire la prova della riconducibilità dell’inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, in coerenza al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’insorgenza di una nuova malattia e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018, Rv. 651166 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017 (Rv. 645164 – 01). 11. Avendo dunque gli attori comprovato la sussistenza di un preciso nesso di derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e l’insorgenza della patologia che condusse la M. al decesso, e non avendo detta struttura dimostrato la riconducibilità dell’inadempimento, o dell’impossibilità dell’adempimento, a una causa ad essa non imputabile, del tutto correttamente il giudice a quo ha sancito la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria convenuta per l’inadempimento contrattuale ad essa concretamente ascritto.

Tali aggressioni includono, ovviamente, anche le infezioni, contro le quali la struttura ospedaliera deve adottare tutte le misure ed i protocolli necessari alla relativa prevenzione e cura.

Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 03-07-2019) 11-11-2019, n. 28989 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente – Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere – Dott. RUBINO Lina – Consigliere – Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere – Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 24793-2017 proposto da: AZIENDA POLICLINICO UMBERTO I DI ROMA in persona del Commissario Straordinario e legale rappresentante pro tempore Dott. P.J., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ N 20, presso lo studio dell’avvocato STEFANO COEN, che la rappresenta e difende; – ricorrente – contro D.B.M., D.B.C., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MAZZINI, 4 INT. 19, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA MAZZONI, che li rappresenta e difende; – controricorrenti – e contro A.M.G., M.U.; – intimati – avverso la sentenza n. 1819/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/03/2017; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal Consigliere Dott. MARCO DELL’UTRI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’Avvocato VINCENZO ANTONIO REYTANI per delega; udito l’Avvocato FEDERICA MAZZONI. Svolgimento del processo 1. Con sentenza resa in data 20/3/2017, la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto da D.B.M., in proprio e in qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale sulla minore D.B.C., e in parziale riforma della decisione di primo grado, ha condannato l’Azienda Policlinico Umberto I di Roma al risarcimento, in favore degli appellanti (originari attori), dei danni dagli stessi subiti a seguito del decesso di M.G. (coniuge e madre degli attori), contestualmente confermando il rigetto della medesima domanda nei confronti dei medici dell’azienda sanitaria convenuta, A.M.G. e M.U.. 2. A fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato l’avvenuta dimostrazione, a seguito delle indagini tecniche svolte nel corso del giudizio, della riconducibilità del decesso della M. all’incidenza di un’infezione da stafilococco aureo contratta dalla paziente nel corso del ricovero presso la struttura ospedaliera dell’azienda sanitaria convenuta, senza che a tale processo causale avesse contribuito l’eventuale condotta degli altri medici chiamati in giudizio. 3. Ciò posto, la corte d’appello ha provveduto alla liquidazione del danno rivendicato dagli originari attori, nella misura specificamente indicata in sentenza. 4. Avverso la decisione d’appello, l’Azienda Policlinico Umberto I di Roma ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi d’impugnazione. 5. D.B.M. e D.B.C. resistono con controricorso. 6. Nessun altro intimato ha svolto difese in questa sede. 7. L’Azienda Policlinico Umberto I di Roma ha depositato memoria. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo, l’azienda ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale erroneamente ascritto la responsabilità della struttura sanitaria in relazione a condotte verificatesi nel periodo compreso tra il 9 e il 16 novembre 2007, là dove la domanda originariamente proposta dagli attori era stata limitata alle condotte della struttura sanitaria convenuta poste in essere in occasione dell’accesso della paziente al pronto soccorso in data 9/11/2007, con la conseguente decisione della causa in violazione del principio di obbligatoria corrispondenza tra chiesto e pronunciato. 2. Il motivo è inammissibile. 3. Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006, Rv. 591719 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2467 del 06/02/2006, Rv. 586752 – 01). 4. Peraltro, il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Sez. 3, Sentenza n. 21087 del 19/10/2015, Rv. 637476 – 01). 5. Nella specie, l’odierna ricorrente, lungi dallo specificare i modi o le forme dell’eventuale scostamento del giudice a quo dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo (anche) della domanda giudiziale, risulta essersi limitata ad argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dal giudice d’appello, così risolvendo le censure proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità; e tanto, al di là dall’assorbente rilievo concernente il carente assolvimento degli oneri di puntuale e completa allegazione del ricorso, di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, con particolare riferimento all’omessa integrale allegazione degli atti processuali indispensabili ai fini dell’esatta ricostruzione del contenuto della domanda originariamente proposta dagli attori. 6. Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 40 c.p., comma 2 e degli artt. 1218, 1228, 1175 e 1375 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sussistenza di un nesso di derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e il decesso della M., sulla base di un’inadeguata valutazione degli elementi di prova complessivamente acquisiti nel corso del giudizio e delle contraddittorie risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, giungendo ad affermare erroneamente la responsabilità della struttura sanitaria, ai sensi dell’art. 1228 c.c., nonostante l’avvenuta attestazione dell’insussistenza di alcun illecito colposo dei medici della medesima struttura. 7. Il motivo è infondato. 8. Dev’essere preliminarmente disattesa la censura avanzata dalla ricorrente con riguardo alla contestazione del ragionamento probatorio contenuto nella sentenza impugnata in relazione alla ricostruzione del nesso di causalità tra il fatto della struttura sanitaria e il decesso della M., trattandosi della pretesa ridiscussione nel merito del significato rappresentativo degli elementi di prova complessivamente richiamati dal giudice d’appello, secondo i termini di un’operazione critica radicalmente inammissibile in sede di legittimità. 9. Ciò posto, varrà osservare come la corte territoriale abbia deciso sulla domanda degli originari attori allineandosi con puntualità al consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale l’accettazione di un degente presso una struttura ospedaliera comporta l’assunzione di una prestazione strumentale e accessoria – rispetto a quella principale di somministrazione delle cure mediche, necessarie a fronteggiare la patologia del ricoverato – avente ad oggetto la salvaguardia della sua incolumità fisica e patrimoniale, quantomeno dalle forme più gravi di aggressione (Sez. 3, Sentenza n. 19658 del 18/09/2014, Rv. 632999 – 01). 10. Nella specie, una volta comprovata la riconducibilità causale del danno alla salute al fatto della struttura sanitaria che aveva accettato il ricovero della M., incombeva su detta struttura l’onere di fornire la prova della riconducibilità dell’inadempimento a una causa autonoma ad essa struttura non imputabile, in coerenza al principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’insorgenza di una nuova malattia e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre, ove il danneggiato abbia assolto a tale onere, spetta alla struttura dimostrare l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 26700 del 23/10/2018, Rv. 651166 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 18392 del 26/07/2017 (Rv. 645164 – 01). 11. Avendo dunque gli attori comprovato la sussistenza di un preciso nesso di derivazione causale tra il fatto della struttura sanitaria convenuta e l’insorgenza della patologia che condusse la M. al decesso, e non avendo detta struttura dimostrato la riconducibilità dell’inadempimento, o dell’impossibilità dell’adempimento, a una causa ad essa non imputabile, del tutto correttamente il giudice a quo ha sancito la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria convenuta per l’inadempimento contrattuale ad essa concretamente ascritto. 12. Con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame di fatti decisivi controversi (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), per avere la corte territoriale omesso di considerare il complesso delle circostanze di fatto analiticamente richiamate in ricorso che avrebbero, ove esaminate, contribuito a escludere il riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta ascritta alla struttura sanitaria convenuta e il decesso della M.. 13. Il motivo è inammissibile. 14. Osserva il Collegio come al caso di specie (relativo all’impugnazione di una sentenza pubblicata dopo la data del 11/9/12) trovi applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (quale risultante dalla formulazione del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), conv., con modif., con la L. n. 134 del 2012), ai sensi del quale la sentenza è impugnabile con ricorso per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. 15. Secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830). 16. Ciò posto, occorre rilevare l’inammissibilità della censura in esame, avendo la ricorrente propriamente trascurato di circostanziare gli aspetti dell’asserita decisività della mancata considerazione, da parte della corte territoriale, delle occorrenze di fatto analiticamente richiamate in ricorso e asseritamente dalla stessa trascurate, e che avrebbero al contrario (in ipotesi) condotto a una sicura diversa risoluzione dell’odierna controversia. 17. Converrà pertanto rilevare come, attraverso l’odierna censura, la ricorrente altro non prospetti se non una rilettura nel merito dei fatti di causa secondo il proprio soggettivo punto di vista, ancora una volta in coerenza ai tratti di un’operazione critica come tale inammissibilmente prospettata in questa sede di legittimità. 18. Con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1226, 2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1218 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente liquidato, in favore degli attori, una somma a titolo di risarcimento del danno morale soggettivo dopo aver già riconosciuto, in favore degli stessi soggetti, il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, con la conseguente indebita duplicazione degli importi risarcitori riferiti a un medesimo pregiudizio, e per avere altresì riconosciuto, in favore degli attori, l’importo massimo previsto dalle tabelle utilizzate per la liquidazione del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale, nonostante la sopravvivenza di altri congiunti e il mancato venir meno dell’intero nucleo familiare dei danneggiati. 19. Il motivo è fondato. 20. Osserva il Collegio come, seguendo l’iter motivazionale dipanato nella sentenza impugnata, la corte territoriale abbia liquidato, in favore degli attori, un risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale unitamente a un risarcimento a titolo di danno morale soggettivo per lo stesso fatto, procedendo, dunque, dopo la liquidazione del primo danno, a un’ulteriore maggiorazione a titolo di danno morale, in tal modo pervenendo a una vera e propria duplicazione, ossia a una doppia considerazione della stessa lesione di interessi, consistente nel peculiare patimento che affligge una persona per la perdita del rapporto parentale. 21. Varrà al riguardo richiamare la testuale previsione di Cass. Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 (punto 4.8) secondo cui: “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato”. 22. La conclusione è stata riaffermata, con nettezza, tra le altre, da Sez. 3, Sentenza n. 25351 del 17/12/2015, Rv. 638116 – 01 (v. altresì Cass. 8 luglio 2014, n. 15491; Cass. 23 settembre 2013, n. 21716) in cui si ribadisce come, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di persona cara, la congiunta attribuzione del danno morale (non altrimenti specificato) e del danno da perdita del rapporto parentale costituisce indebita duplicazione di risarcimento, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (sul piano morale soggettivo), e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (sul piano dinamico-relazionale), rappresentano elementi essenziali dello stesso complesso e articolato pregiudizio, destinato ad essere risarcito, sì integralmente, ma anche unitariamente. Allo stesso modo, in virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poichè il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca (Sez. 3, Ordinanza n. 30997 del 30/11/2018, Rv. 651667 – 01). 23. Le richiamate esigenze di integralità e di unitarietà del risarcimento, in particolare, trovano radice nella più recente elaborazione della giurisprudenza di questa stessa Terza Sezione, là dove è intervenuta a delimitare i contorni del compito liquidatorio del giudice in caso di danno non patrimoniale, precisando come la considerazione separata delle componenti del pur sempre unitario concetto di danno non patrimoniale, in tanto è ammessa, in quanto sia evidente la diversità del bene o interesse oggetto di lesione (Cass. 9 giugno 2015, n. 11851; Cass. 8 maggio 2015, n. 9320). 24. Tali principi hanno trovato ulteriore conferma nelle conclusioni cui, da ultimo, è pervenuta questa Corte, là dove ha stabilito, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, come costituisca duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale). Non costituisce invece duplicazione la congiunta attribuzione del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perchè non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sè, la paura, la disperazione). Ne deriva che, ove sia dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (Sez. 3, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 – 01, successivamente confermata da Sez. 3, Ordinanza n. 23469 del 28/09/2018, Rv. 650858 – 02). 25. Ciò posto, in caso di risarcimento del danno da perdita, o da lesione, del rapporto parentale, ferma la possibilità per la parte interessata di fornire la prova di tale danno con ricorso alla prova presuntiva, e in riferimento a quanto ragionevolmente riferibile alla realtà dei rapporti di convivenza e alla gravità delle ricadute della condotta (cfr. Sez. 3, Ordinanza n. 11212 del 24/04/2019, Rv. 653591 – 01), spetterà al giudice il compito di procedere alla verifica, sulla base delle evidenze probatorie complessivamente acquisite, dell’eventuale sussistenza di uno solo, o di entrambi, i profili di danno non patrimoniale in precedenza descritti (ossia, della sofferenza eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, viceversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita). E’ in tale quadro che emergerà, con intuitiva evidenza, il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benchè di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale. Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nono e nipote, Sez. 3, Sentenza n. 21230 del 20/10/2016, Rv. 642944 – 01. V. ancora Sez. 3, Sentenza n. 12146 del 14/06/2016, Rv. 640287 – 01), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita (come, ad es., l’età delle parti del rapporto parentale) che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere. 26. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, sì che, ad esempio, nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso e ulteriore rispetto alla sofferenza morale (rigorosamente comprovata) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Sez. 3, Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 16992 del 20/08/2015, Rv. 636308 – 01). Rimane, infine, altresì ferma la netta distinzione tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca, l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione unitaria (Sez. 3, Sentenza n. 21084 del 19/10/2015, Rv. 637744 – 01). 27. Ciò posto, dovendo procedersi – in forza dell’accoglimento del motivo in esame e della conseguente cassazione, sul punto, della sentenza impugnata – all’integrale rielaborazione dei calcoli per la liquidazione del danno relativo alla perdita del rapporto parentale, la successiva censura, riferita al riconoscimento del massimo importo tabellare, deve ritenersi assorbita. 28. Con il quinto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale erroneamente riconosciuto, in favore degli attori, il risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, nella specie dagli stessi non concretamente rivendicato, con la conseguente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. 29. Con il sesto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1126, 2056 e 2059 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato la sussistenza del diritto degli attori al risarcimento del danno tanatologico iure haereditatis, in contrasto con i più recenti arresti della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. 30. Il sesto motivo è fondato e idoneo ad assorbire la rilevanza del quinto. 31. Osserva il Collegio come, sulla base dell’articolazione argo-mentativa seguita nella sentenza impugnata, il giudice a quo abbia obiettivamente riconosciuto la liquidazione, in favore degli attori, di un danno, iure haereditario, per la perdita, da parte della de cuius, del bene della vita in sè considerato, ossia di un danno in sè diverso, tanto dal danno alla salute, quanto dal c.d. danno biologico terminale e dal c.d. danno morale terminale (c.d. catastrofale) e, dunque, indipendente dalla consapevolezza che il danneggiato possa averne avuto. 32. Ciò posto, la decisione così compendiata deve ritenersi errata, dovendo nella specie trovare applicazione i principi sul punto statuiti da questa Corte, secondo cui, in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicchè, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità iure haereditatis di tale pregiudizio, in ragione – nel primo caso – dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero – nel secondo – della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, Rv. 635985 – 01). Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell’exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida” (Sez. 3 -, Sentenza n. 26727 del 23/10/2018, Rv. 650909 – 01). In ogni caso, rimane esclusa l’indennizzabilità ex se del danno non patrimoniale da perdita della vita; e tale esclusione non vale a contraddire il riconoscimento del “diritto alla vita” di cui all’art. 2 CEDU, atteso che tale norma (pur di carattere generale e diretta a tutelare ogni possibile componente del bene-vita) non detta specifiche prescrizioni sull’ambito e i modi in cui tale tutela debba esplicarsi, nè, in caso di decesso immediatamente conseguente a lesioni derivanti da fatto illecito, impone necessariamente l’attribuzione della tutela ri-sarcitoria, il cui riconoscimento in numerosi interventi normativi ha comunque carattere di specialità e tassatività ed è inidoneo a modificare il vigente sistema della responsabilità civile, improntato al concetto di perdita-conseguenza e non sull’evento lesivo in sè considerato (Sez. L, Sentenza n. 14940 del 20/07/2016, Rv. 640733 – 01). 33. Sulla base delle argomentazioni che precedono, rilevata la fondatezza del quarto e del sesto motivo, la complessiva infondatezza dei primi tre e l’assorbimento del quinto, dev’essere pronunciata la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie il quarto e il sesto motivo; rigetta i primi tre; dichiara assorbito il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte d’appello di Roma, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 luglio 2019. Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

Il Tribunale di Taranto, con la sentenza n.2241/2019, ha affermato che, una volta accertata la natura  nosocomiale ( cioè ospedaliera) dell’infezione  per la presenza del un batterio Klebsiella nell’ambito ospedaliero, la responsabilità è da imputarsi all’ente, se non risulta provato da quest’ultimo l’osservanza delle comuni regole di diligenza e prudenza  necessarie per scongiurare l’esito infausto.

PEDONE INVESTITO E  INFEZIONE OSPEDALIERA

Un esame eseguito il 4.8.2007 risulta positivo per enterobacter cloacae: questa appartiene alla famiglia delle enterobacteriaceae colacae ed è una delle tredici specie ed è responsabile della causa di morbilità ed infezioni delle pelle tra i pazienti ospedalizzati.

Sono la causa di infezioni che si sviluppano all’interno di un ospedale.

Questo essendo il tenore dell’accertamento peritale deve rilevarsi come nella fattispecie siano stati interamente assolti gli oneri probatori gravanti sulla parte attrice secondo la consolidata giurisprudenza e siano stati- invece- interamente negletti quelli gravanti sulla patte convenuta e secondo i quali “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto o il contatto sociale e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante” (Cass. S.U. sentenza n.577/08).

 

AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CAUSE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE

AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA 

Tribunale di Milano

Sezione I 

Sentenza del 16 aprile 2015, n. 4841

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Martina Flamini ha pronunciato la seguente

Sentenza

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 67082/2010 promossa da:

XXX, con il patrocinio dell’avv. BATTISTONSAMANTHA, elettivamente domiciliato in Magenta, VIALE DELLO STADIO, 68 presso il difensore ATTORE

contro

YYY, con il patrocinio dell’avv. PALTRINIERI VINCENZO, elettivamente domiciliata in Milano, via Goldoni n. 1, presso lo studio del difensore, con il patrocinio dell’avv. PAOLO VINCI, elettivamente domiciliato in Milano, PIAZZA DELLA CONCILIAZIONE, presso il difensore

CONVENUTI

ZZZ

CONVENUTA CONTUMACE

CONCLUSIONI: Le parti hanno concluso come da fogli allegati al verbale d’udienza di precisazione delle conclusioni.

Fatto e Diritto

XXX conveniva dinanzi al Tribunale di Milano ZZZ, la YYY deducendo: che il 10.5.2007, mentre stava attraversando la via Morandi, nel territorio del comune di Senago, era stato investito dall’autovettura Citroen Saxo, condotta da ZZZ;; che, in seguito al sinistro, era stato trasportato all’ospedale Salvini di Garbagnate Milanese, con diagnosi di frattura spiroide biossea della gamba sinistra, e sottoposto all’intervento di osteosintesi cruenta;; che, dopo la dimissione, era stata accertata la presenza di un’area di necrosi cutanea ed in seguito la perdita di sostanza cutanea;; che i sanitari della struttura sanitaria convenuta non erano riusciti ad arrestare l’evoluzione dell’infezione in senso osteomelitico;

che, a causa di tale patologie, era stato costretto a numerosi ricoveri; che la società che assicurava l’autovettura condotta dalla ZZZ, aveva versato la somma 48.065,00, trattenuta dall’attore a titolo di acconto. Evidenziava che, a causa del comportamento dei convenuti, aveva subito i seguenti danni:

danno biologico; danno patrimoniale relativo alle spese mediche da sostenere in futuro; danno relativo alla perdita delle retribuzioni (tra il dicembre del 2008 ed il settembre del 2010) ed alla perdita della capacità lavorativa specifica, con vittoria delle spese di lite.

Si costituiva l’Azienda Ospedaliera “G Garbagnate Milanese, di seguito, per brevità, solo Ospedale Salvini eccependo, in via preliminare, il difetto di legittimazione della struttura sanitaria convenuta, in ragione dell’esclusiva responsabilità della ZZZ nella causazione dei danni richiesti dall’attore.

Deduceva, inoltre, che non vi era prova del fatto che l’infezione contratta dall’attore sia riconducibile all’assistenza ospedaliera. Concludeva chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice, l’accertamento della esclusiva responsabilità della ZZZ  e della Unipol e la loro condanna al pagamento dei danni richiesti dall’attore, con vittoria di spese.

La UGF Assicurazioni, società di assicurazione della vettura condotta dalla ZZZ, si costituiva deducendo: che il XXX aveva attraversato la strada senza osservare le normali regole di prudenza ed al di fuori delle strisce pedonali;; che non era stata fornita la prova dell’esclusiva responsabilità del conducente l’autovettura;; che non vi era prova dei danni richiesti dall’attore. Concludeva chiedendo il rigetto delle domande di parte attrice e, in subordine, la condanna della struttura sanitaria convenuta a tenere indenne l’assicurazione dalle conseguenze negative derivanti dall’eventuale accoglimento delle domande formulate dal XXX.

ZZZ, ritualmente citata, non si costituiva e veniva dichiarata contumace.

Accertamento della responsabilità Nel merito, le domande spiegate da parte attrice sono fondate e meritano accoglimento per i motivi che seguono.

Con riferimento alla dinamica del sinistro stradale, che ha visto coinvolto il XXX, il quale stava attraversando la strada, appare opportuno compiere alcune precisazioni di ordine generale.

Come più volte osservato dalla Suprema Corte, il dovere di attenzione del conducente teso all’avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel principio generale di cautela che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: quello di ispezionare la strada dove si procede o che si sta per impegnare; quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (in particolare, proprio dei pedoni, cfr., per riferimenti, Sez. 4, n. 10635 del 20/02/2013,; Sez. 4, n. 4854 del 30/01/1991,; Sez. 4, n. 44651 del 12/10/2005,; Sez. 4, n. 40908 del 13/10/2005).

Trattasi di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, siano essi genericamente imprudenti o violativi degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall’art. 190 cod. strada (tipico, quello dell’attraversamento della carreggiata al di fuori degli appositi attraversamenti pedonali).

Il conducente, infatti, ha, tra gli altri, anche l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui (Sez. 4, n. 1207 del 30/11/1992, dep. 1993).

Come affermato anche recentemente dalla Corte di Cassazione, da tali principi, discende che: “il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo del pedone (imprudente o violativo di una specifica regola comportamentale: una tale condotta risulterebbe concausa dell’evento lesivo, penalmente non rilevante per escludere la responsabilità del conducente, ai sensi dell’art. 41 c.p., comma 1), ma occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista nè prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento (art. 41 c.p., comma 2)”(Cass. 5866/2015).

Con riferimento alla censura relativa al concorso di colpa dell’attore si osserva che la presunzione di colpa del conducente dell’autoveicolo investitore prevista dall’art. 2054 c.c., comma 1, non opera in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito, fondata sul rapporto di causalità fra evento dannoso e condotta umana. Pertanto, la circostanza che il conducente non abbia fornito la prova idonea a vincere la presunzione non preclude l’indagine in ordine all’eventuale concorso di colpa, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, del pedone investito, sussistente laddove il comportamento di quest’ultimo sia stato improntato a pericolosità ed imprudenza.

Nel caso in esame non è contestato che il XXX, mentre stava attraversando la via Morandi, è stato investivo dall’autovettura condotta da ZZZ.

Quest’ultima, gravata del relativo onere, non costituendosi non ha superato la presunzione di colpa di cui al primo comma.

Con riferimento al possibile concorso di colpa dell’attore si osserva che la UGF si è limitata ad invocare il contenuto delle dichiarazioni rese dalla Sacco alla Polizia Locale (relative al fatto che il XXX sarebbe sbucato all’improvviso), dalle quali non può trarsi alcun argomento di prova, in quanto frutto di unilaterali dichiarazioni dell’assicurato a sé favorevoli.

Dalla relazione di incidente stradale (doc. 1 della UGF) emerge che via Morandi è priva di strisce pedonali. L’assenza della detta segnaletica e l’attraversamento della strada da parte del XXX non può però portare a ritenere, in assenza di ulteriori elementi di prova, che l’attore abbia attraversato all’improvviso o in modo imprudente la strada. In assenza di prova, non può ritenersi che l’attore abbia concorso alla causazione del sinistro stradale in esame.

Deve pertanto ritenersi che unica responsabile dell’investimento sia ZZZ.

In merito alla vicenda relativa ai fatti successivi al sinistro stradale e, dunque, al coinvolgimento dell’ospedale Salvini, si osserva quanto segue.

In via generale, è opportuno richiamare il consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale “in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile che non”, restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinali da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 975 del 16/0 1/2009).

Più di recente, la Suprema Corte ha rilevato come “In tema di responsabilità contrattuale del medico nei confronti del paziente per danni derivanti dall’esercizio di attività di carattere sanitario, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato il suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno” (Cass. 15993/2011).

Orbene l’espletata consulenza tecnica – le cui conclusioni meritano di essere pienamente condivise, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta – depositata il 28.11.2012 a firma del dott. Giuseppe Basile, specialista ortopedico, e del dott. Giuseppe Deleo, specialista in medicina legale, ha consentito di accertare i seguenti elementi:

– Il 10.5.2007 il XXX, vittima di infortunio da circolazione stradale, vien trasportato al Pronto Soccorso del XXX per frattura spiroide biossea alla gamba sinistra, trattata chirurgicamente per riduzione e sintesi con placca e viti;; l’attore viene dimesso il 19.5.2007;

– Da una certificazione di visita ortopedica del 4.6.2007 si rileva la presenza di un’area di necrosi cutanea al terzo medio gamba in via di demarcazione;

– Il 12.6.2007 si registra la perdita di sostanza cutanea dall’area di necrosi;;

– Il referto del 4.8.2007 risulta positivo per enterobacter cloacae (sviluppo di numerose colonie);

– Seguono numerosi visite mediche (ortopediche e di chirurgia plastica) e ricoveri per intervento chirurgico di innesto cutaneo e per recentazione piaga escussione tramite fistolosi;

– Il referto di una scintigrafia del 12.12.2007 dimostra la presenza di un processo settico;

– Il 21.2.2008 viene eseguito un intervento chirurgico per resezione ossea di osteomelite cronica;

– Seguono numerose visite mediche ed un ricovero per intervento chirurgico di pulizia chirurgica, avanzamento di lembo e copertura con innesto;

Sulla base dei predetti elementi di fatto il collegio di consulenti ha evidenziato che:

– Il XXX presentava una lesione traumatica dell’arto inferiore sinistro, consistente in una frattura biossea trattata chirurgicamente;

– Al detto danno si è aggiunta una lesione costituita dal grave e prolungato processo settico che si è sovrapposto con chiarezza dall’estate del 2007 e che ha comportato una lunga storia clinica stabilizzatasi intorno alla fine dell’estate del 2010;;

– Un esame eseguito il 4.8.2007 risulta positivo per enterobacter cloacae: questa appartiene alla famiglia delle enterobacteriaceae colacae ed è una delle tredici specie ed è responsabile della causa di morbilità ed infezioni delle pelle tra i pazienti ospedalizzati.

Sono la causa di infezioni che si sviluppano all’interno di un ospedale.

Questo essendo il tenore dell’accertamento peritale deve rilevarsi come nella fattispecie siano stati interamente assolti gli oneri probatori gravanti sulla parte attrice secondo la consolidata giurisprudenza e siano stati- invece- interamente negletti quelli gravanti sulla patte convenuta e secondo i quali “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto o il contatto sociale e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante” (Cass. S.U. sentenza n.577/08).

Gli elementi accertati dai c.t.u. consentono di ritenere che il XXX ha verosimilmente contratto l’infezione da enterobacter cloacae in occasione del primo ricovero (nel maggio del 2007) presso l’ospedale Salvini. Ciò per considerazioni di ordine statistico probabilistico, per la non contestata negatività per il predetto batterio precedentemente all’intervento, per la compatibilità cronologica e per l’esclusione di altre potenziali cause di trasmissione dell’infezione dopo la degenza.

Acquisita in concreto la prova positiva della riferibilità eziologica dell’insorgenza di nuova patologia in esito al contatto con la struttura sanitaria convenuta, si osserva che parte convenuta si è limitata ad allegare di aver posto in essere i corretti comportamenti di prevenzione del rischio infettivo, conformi ai protocolli e del tutto in sé adeguati a scongiurare l’evento.

In realtà, a supporto di detta mera allegazione, parte convenuta non ha offerto alcun elemento di prova costituenda (non avendo attico lato capitoli di prova in ordine alle concrete modalità assunte nel caso in esame al fine di prevenire il rischio infettivo) o costituita.

Stante la completa inottemperanza della convenuta all’onere probatorio sulla stessa incombente, secondo i principi come sopra delineati, non può che procedersi all’affermazione di sussistenza della dedotta responsabilità.

In conclusione, ritiene il Tribunale che ZZZ, la UGF Assicurazioni (a titolo di responsabilità extracontrattuale) e l’Ospedale Salvini (per inadempimento contrattuale) siano da ritenere responsabili, in via solidale, dei danni subiti dall’attore.

Danni risarcibili

In merito all’entità delle lesioni subite dall’attore, dalla relazione di c.t.u., non specificamente contestata con riferimento alla quantificazione dei danni, emerge che:

– I postumi in termini di inabilità temporanea sono i seguenti: 120 giorni di inabilità totale; 450 giorni di inabilità temporanea al 75%; 30 giorni di inabilità al 50%; 30 giorni al 33% (i predetti postumi, nel caso in cui non si fosse verificata l’infezione nosocomiale, si sarebbero ridotti nel modo che segue: 10 giorni al 100%; 45 giorni al 75%, 45 giorni al 50%, 30 giorni al 25%);

– Danno biologico permanente al 27/28%: il 10%12% del danno è da attribuirsi all’iniziale lesione locomotoria e la restante quota al danno infettivologico successivamente sovrappostosi;

– Danno della capacità lavorativa specifica di operaio metalmeccanico addetto alla produzione di lavastoviglie nella misura del 15-20%;

– Risultano documentate spese sanitarie pari ad euro 2.832,74, che si stimano congrue (oltre ad euro 86,47 per copie delle cartelle cliniche).

  1. a) Danno non patrimoniale

In via generale, occorre premettere che ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 cod.civ., il risarcimento deve comprendere il danno emergente (le effettive perdite subite dal danneggiato rispetto all’epoca precedente all’avvenuta lesione) ed il lucro cessante (il mancato guadagno, vantaggio, utilità che il soggetto leso avrebbe potuto conseguire se il fatto illecito non si fosse verificato).

Per procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale subito da XXX, occorre fare applicazione delle tabelle elaborate da questo tribunale comunemente adottate per la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. del danno non patrimoniale derivante da lesione dell’integrità psico/fisica – criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema Corte (vd Cass.

7/6/2011 n. 12408 e Cass. 22/12/2001 n. 28290).

In via generale non pare inutile ricordare che il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, essendo compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli. Pertanto, in tema di liquidazione del danno per la lesione del diritto alla salute, nei diversi aspetti o voci di cui tale unitaria categoria si compendia, l’applicazione dei criteri di valutazione equitativa, rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, deve consentirne la maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento, anche attraverso la cd. personalizzazione del danno (Cass., Sez. Un., n. 26972/08).

Con particolare riferimento alla c.d. personalizzazione, la Suprema Corte ha precisato che “il grado di invalidità permanente espresso da un baréme medico legale esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita quotidiana della vittima. Pertanto, una volta liquidato il danno biologico convertendo in denaro il grado di invalidità permanente, una liquidazione separata del danno estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale, è possibile soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età. Tali circostanze debbono essere tempestivamente allegate dal danneggiato, ed analiticamente indicate nella motivazione, senza rifugiarsi in formule di stile o stereotipe del tipo ‘tenuto conto della gravità delle lesioni’” (Cass.

23778/2014).

L’importo astrattamente liquidabile per una lesione dell’integrità psicofisica nella misura del 28% in soggetto di sesso maschile, dell’età di 38 anni all’epoca dei fatti risulta corrispondente alla somma di euro 131.378,00.

Il Giudice, procedendo ad una valutazione nella sua effettiva consistenza delle sofferenze fisiche e psichiche patite da XXX (così da tendere ad un risarcimento del danno nella misura più prossima alla sua integralità, puramente tendenziale atteso che trattasi di danno alla persona) ritiene presuntivamente che nel caso di specie la voce del danno non patrimoniale intesa come sofferenza soggettiva in sé considerata sia adeguatamente risarcita con la sola applicazione dei predetti valori monetari. Il danneggiato, infatti, non ha allegato l’esistenza di elementi specifici tali da far ritenere che la fattispecie in esame si differenzi dai casi consimili di invalidità dello stesso grado.

A titolo di risarcimento del danno da inabilità temporanea all’attore deve essere riconosciuta la somma di euro 48.240,00 (ottenuta considerando un valore unitario di euro 100,00 per ciascun giorno di inabilità temporanea assoluta).

b)Danni patrimoniali In merito ai danni patrimoniali, si osserva quanto segue.

1.La domanda di parte attrice può trovare accoglimento con riferimento al danno emergente, costituito dalle spese mediche sostenute dall’attore, pari a complessivi euro 2.919,21.

  1. Merita altresì accoglimento la domanda relativa al risarcimento del lucro cessante (art. 1223 c.c.) derivanti dalla perdita delle retribuzioni e della capacità lavorativa specifica.

Con riferimento alla prima voce di danno si osserva come l’attore ha dimostrato di aver chiesto un’aspettativa non retribuita, concessa dall’Elettrolux per 4 mesi (doc.24 di parte attrice). Tale danno, sulla base dei documenti relativi ai redditi percepiti dal XXX negli anni precedenti (doc. 25) può essere determinato in euro 6.000,00 (pari alla retribuzione di 4 mesi, calcolata sulla base delle dichiarazioni dei redditi versate in atti).

Con riferimento alla perdita della capacità lavorativa specifica si osserva quanto segue.

In via generale, appare opportuno premettere che, in caso di illecito lesivo dell’integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all’attività lavorativa da parte di un soggetto è legittimamente risarcibile come danno biologico – nel quale si ricomprendono tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene salute in sé considerato – con la conseguenza che la anzidetta voce di danno non può formare oggetto di autonomo risarcimento come danno patrimoniale che andrà, invece, autonomamente liquidato qualora alla detta riduzione della capacitò lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica, che, a sua volta, dia luogo ad una riduzione della capacità di guadagno (cfr. Cass. 27.1.2011 n. 1879; Cass. 1.12.2009 n. 25289).

La capacità lavorativa specifica consiste, dunque, nella contrazione dei redditi dell’infortunato, determinata dalle lesioni subite, sussistendo quest’ultimo tipo di pregiudizio allorquando, dopo la lesione ed a causa di essa, la vittima non sia più in grado di percepire il medesimo reddito di cui godeva prima del sinistro (Cass. 21014/200/; Cass.13409/2001).

La riduzione della capacità lavorativa non costituisce un danno di per sé, ma rappresenta una causa del danno da riduzione del reddito; sicchè la prova della riduzione della capacità di lavoro non comporta automaticamente l’esistenza del danno patrimoniale ove il danneggiato non dimostri, anche a mezzo di presunzioni semplici, la conseguente riduzione della capacità di guadagno.

Nel caso in esame, alla luce del tipo di lesione subita, del fatto che l’attore svolge le mansioni di operaio addetto alle riparazioni delle lavastoviglie, dell’elevata percentuale di invalidità allo stesso riconosciuta (28%) e delle inevitabili conseguenze che tali invalidità avrà sull’attività lavorativa svolta dall’attore (come accertato dal c.t.u.), delle prove fornite dall’attore (il quale, attraverso la produzione delle dichiarazioni dei redditi, ha provato una contrazione degli stessi in seguito al sinistro), può ritenersi che in futuro XXX percepirà un reddito inferiore del 20% (percentuale che, alla luce dell’elevato grado di invalidità e del tipo di mansioni, di carattere manuale, svolte dall’attore ritiene il giudice di condividere a fronte della forbice compresa tra il 15 ed il 20% indicata dal c.t.u.), a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento per cui è causa.

Ancora in via generale non pare inutile ricordare che la Suprema Corte ha così statuito: “Il grado di invalidità permanente determinato da una lesione all’integrità psico-fisica non si riflette automaticamente, né tanto meno nella stessa misura, sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e, quindi, di guadagno della stessa. Tuttavia, nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi. La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio” (Cass. n. 26534 del 2013).

L’art. 137 del D.Lgs. 209/2005 dispone che “nel caso di danno alla persona, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l’incidenza dell’inabilità temporanea o dell’invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile, tale reddito si determina, per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge, che risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni”.

XXX, nel 2007, lavorava alle dipendenze della Elettrolux. Nel 2007 ha percepito redditi da lavoro dipendente pari ad euro 20.217,00 (cfr. doc. 25 di parte attrice) e tale valore deve essere preso come riferimento, in considerazione del fatto che questo è il più alto degli ultimi tre anni.

Sulla base dei predetti elementi utilizzando l’importo sopra indicato (per 27 anni, considerando l’età dell’attore all’epoca dei fatti, 48 anni ed un’età lavorativa pari a 65 anni) come valore di riferimento da diminuire poi allo scopo di risarcire proprio il danno da diminuzione della capacità lavorativa specifica, apprezzabile, come risultante dalla c.t.u., in misura pari al 20% – per il danno da diminuzione della capacità lavorativa specifica si può risarcire la somma di euro 27.000,00 (somma ottenuta moltiplicando il reddito percepito dall’attore nel 2007 per un numero di anni pari a 27, per i motivi sopra evidenziati). Dal valore così ottenuto si è poi passati a calcolare una percentuale pari al 20% del detto importo, allo scopo di ottenere una somma che tenga conto della effettiva diminuzione che il XXX sarà costretto a subire.

Il credito complessivo vantato dall’attore ammonta, pertanto, detratto l’importo di euro 48.065,00 versato dalla UGF, ad euro 167.462,00.

Interessi e rivalutazione

Inoltre, l’attore chiede che venga riconosciuta la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale sul danno liquidato.

La pretesa, relativa al lucro cessante per il ritardato risarcimento del danno, non può essere liquidata nei termini richiesti.

L’intero danno non patrimoniale subito dal danneggiato è stato liquidato equitativamente ai valori attuali della moneta e non deve quindi farsi luogo alla sua rivalutazione.

Inoltre, alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (risalente alla sentenza del 17/2/1995 n. 1712), vertendosi in tema di debito di valore non sono dovuti sul credito risarcitorio suddetto gli interessi legali con decorrenza dall’illecito.

Per quanto riguarda gli interessi – i quali consistono in una mera modalità liquidatoria del possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito al giudice di far ricorso, solo nei casi in cui la rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che deve esser posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato tempestivo – atteso che l’attore non ha dedotto l’esistenza di un ulteriore danno da ritardo, gli stessi possono essere riconosciuti solo nei limiti degli interessi legali decorrenti dalla data della presente pronuncia sino al soddisfo.

Domande di regresso svolte dai convenuti

Con riferimento alla graduazione delle singole colpe (ed al conseguente frazionamento dell’importo complessivo dovuto a titolo di risarcimento) si osserva quanto segue.

In via generale non pare inutile ricordare l’orientamento assolutamente pacifico della Suprema Corte, secondo il quale la persona danneggiata in conseguenza di un fatto illecito imputabile a più persone legate dal vincolo della solidarietà può pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche da una sola delle persone coobbligate, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe di costoro e l’eventuale diseguale efficienza causale di esse può avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento tra i corresponsabili.

Del pari frutto di una giurisprudenza del tutto consolidata il principio in forza del quale il giudice del merito adito dal danneggiato può e deve pronunciarsi sulla graduazione delle colpe solo se uno dei condebitori abbia esercitato l’azione di regresso nei confronti degli altri, o comunque, in vista del regresso abbia chiesto tale accertamento in funzione della ripartizione interna (Cass. 25 febbraio 2004, n. 3803; Cass. 12 dicembre 2001 n. 15687; Cass. 3 aprile 1997 n. 1869; Cass. 16 febbraio 1996 n. 1199; Cass. 20 gennaio 1995 n. 620; Cass. 29 novembre 1994 n. 10201 e Cass. 8 giugno 1994 n. 5546).

Nel caso in esame i convenuti hanno proposto, ciascuna nei confronti dell’altra, una domanda volta ad ottenere l’accertamento dell’esclusiva responsabilità della controparte nella causazione dei danni e la conseguente condanna a tenerla indenne dalle conseguenze negative.

In merito alle dette domande, dalla relazione di c.t.u. emerge come, a fronte di un danno complessivo del 28%, il 40% della responsabilità sia da ascrivere alla Sacco ed alla UGF, mentre del restante 60% debba essere ritenuto responsabile l’ospedale Salvini.

In accoglimento della domanda spiegata dalla UGF, pertanto, l’ospedale Salvini deve essere condannato a tenere indenne ZZZ e la UGF in via di regresso, nei limiti del 60%, di quanto lo stessa andrà a pagare a parte attrice per capitale, interessi e spese in dipendenza della presente sentenza.

Spese di lite

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Le spese di CTU, già liquidate con separati provvedimenti, devono essere poste definitivamente a carico dei convenuti, in solido.

P.Q.M.

Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda, istanza od eccezione disattesa, così provvede:

1) Accoglie le domande di parte attrice e, per l’effetto, condanna ZZZ, la UGF Assicurazioni S.p.A. e l’Ospedale “G. Salvini” di Garbagnate Milanese, in solido, al pagamento, in favore di XXX, a titolo di risarcimento danni del complessivo importo di euro 167.462,00, oltre gli interessi legali dalla data della presente pronuncia sino al soddisfo;

2) Condanna l’Ospedale “G. Salvini” di Garbagnate Milanese a tenere indenne ZZZ e la UGF in via di regresso, nei limiti del 60%, di quanto lo stesso andrà a pagare a parte attrice per capitale, interessi e spese in dipendenza della presente sentenza;

3) condanna i convenuti, in solido, in favore dell’attore al pagamento delle spese di lite, liquidate in euro 13.400,00 ed in euro 374,00 per contributo unificato, oltre il 15% di spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge;

4) pone definitivamente a carico dei convenuti, in solido, le spese di c.t..u, già liquidate con separato provvedimento.

Milano, 15 aprile 2015

Il Giudice dott. Martina Flamini

AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CUASE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE

AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA 

AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CAUSE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE

AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA 

Il ricorso consta di un unico motivo, con il quale la deducente lamenta vizio di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva: in specie, oggetto di lagnanza è il mancato accoglimento della richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante confronto fra il consulente del P.M. e quello della difesa (confronto già oggetto di richiesta in primo grado, rigettata dal Tribunale); tale acquisizione probatoria, che alla luce della motivazione della sentenza di primo grado avrebbe avuto portata decisiva, non è stata però disposta, sebbene la Corte di merito potesse, dal confronto fra gli esperti, trarre motivi per giungere a un convincimento diverso da quello del primo giudice. Prosegue la ricorrente evidenziando la contraddittorietà dell’affermazione del consulente del P.M. il quale, nel corso del giudizio, ha dichiarato di non avere mai visionato il cartellino anestesiologico, pur avendolo criticato a pag. 47 dell’elaborato da lui scritto, e di poter solo supporre che tipo di anestesia fosse stata praticata, così ponendo a base delle sue conclusioni mere ipotesi interpretative in luogo di certezze. Ciò a fronte delle diverse conclusioni cui è giunto il consulente della difesa.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 6 giugno – 11 luglio 2017, n. 33770

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Presidente –

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere –

Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere –

Dott. CAPPELLO Gabriella – Consigliere –

Dott. PAVICH Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

S.V., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 14/10/2016 della CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. GIUSEPPE PAVICH;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Romano Giulio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Udito il difensore di Parte Civile avvocato COCUCCI GIOVANNI del foro di Firenze conclude per l’inammissibilità del ricorso; deposita conclusioni scritte e nota spese.

L’avvocato TURI MARIO del foro di SALERNO in difesa di S.V. si riporta ai motivi e ne chiede l’accoglimento.

Svolgimento del processo

  1. La Corte d’appello di Roma, in data 14 ottobre 2016, ha confermato la sentenza di condanna alla pena di giustizia e alle statuizioni civili emessa dal Tribunale di Roma il 15 aprile 2015 nei confronti di S.V., imputata del delitto di omicidio colposo a lei contestato in rubrica.

1.1. L’addebito mosso alla S., medico anestesista presso il Policlinico (OMISSIS), riguarda le condotte dalla stessa poste in essere nei riguardi della paziente R.A., che era stata ricoverata presso il nosocomio in relazione agli esiti traumatici di un incidente stradale.

In seguito al ricovero, la R., il (OMISSIS), veniva sottoposta presso il Policlinico ad un intervento chirurgico di riduzione chiusa di una frattura nasale non a cielo aperto; dopo l’operazione, la donna veniva trasferita nel reparto di rianimazione, dove però decedeva il (OMISSIS) per insufficienza cardiorespiratoria. Secondo la ricostruzione operata dai consulenti del Pubblico ministero e accolta dai giudici di merito, al termine dell’intervento chirurgico si era manifestata nella R. un’encefalopatia ischemica, dalla quale era derivato lo stato comatoso, con progressivo peggioramento delle condizioni generali e conseguente decesso; l’ischemia cerebrale veniva collegato a una carenza d’ossigeno generalizzata a livello cerebrale, indotta dalla condotta della d.ssa S., che aveva determinato un’insufficienza respiratoria a causa della mala gestio delle vie aeree (ed in specie dell’apparato oro tracheale).

Più precisamente la S., secondo le linee guida, avrebbe dovuto assicurare alla paziente una corretta ventilazione polmonare durante l’intervento, pur con il presidio della cannula di Guedel (in concreto utilizzata al posto della più prudente intubazione oro tracheale), per evitare il pericolo, purtroppo verificatosi, di ostruzione delle alte vie respiratorie. La cattiva gestione delle vie aeree da parte della S. – proseguita pur a fronte di segni clinici strumentali della carenza di ossigeno nel sangue durante l’intervento determinava però, come detto, una condizione di prolungata ipossia, con conseguente danno cerebrale, in paziente che oltretutto era sottoposta ad operazione chirurgica in sede nasale.

1.2. La Corte di merito ha disatteso le doglianze dell’imputata appellante, rivolte contro le valutazioni dei consulenti e alcune dichiarazioni testimoniali delle infermiere M. e Ma.

Più in particolare, veniva rigettata la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante confronto tra il consulente della difesa e quello del P.M., atteso che la ricostruzione operata da quest’ultimo risultava condivisibile, in quanto argomentata sulla base di dati certi, e che non si ravvisavano contraddizioni fra l’elaborato scritto del consulente prof. P. e le sue dichiarazioni in aula. La Corte d’appello ha poi effettuato una sintetica ricostruzione dei passaggi della vicenda, condividendo le valutazioni del consulente del P.M. a proposito delle manchevolezze della d.ssa S. e della loro rilevanza nel prodursi del corna cerebrale a carico della R.. Infine, i giudici del collegio hanno escluso la rilevanza dei segnalati elementi di contraddizione fra le dichiarazioni rese dalle infermiere, ed hanno altresì escluso la decisività della rilevanza causale (e la portata interruttiva del nesso di causalità) delle infezioni contratte dalla vittima all’interno del reparto di rianimazione dopo l’intervento.

  1. Avverso la prefata sentenza ricorre la S., per il tramite del suo difensore di fiducia.

2.1. Il ricorso consta di un unico motivo, con il quale la deducente lamenta vizio di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva: in specie, oggetto di lagnanza è il mancato accoglimento della richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante confronto fra il consulente del P.M. e quello della difesa (confronto già oggetto di richiesta in primo grado, rigettata dal Tribunale); tale acquisizione probatoria, che alla luce della motivazione della sentenza di primo grado avrebbe avuto portata decisiva, non è stata però disposta, sebbene la Corte di merito potesse, dal confronto fra gli esperti, trarre motivi per giungere a un convincimento diverso da quello del primo giudice. Prosegue la ricorrente evidenziando la contraddittorietà dell’affermazione del consulente del P.M. il quale, nel corso del giudizio, ha dichiarato di non avere mai visionato il cartellino anestesiologico, pur avendolo criticato a pag. 47 dell’elaborato da lui scritto, e di poter solo supporre che tipo di anestesia fosse stata praticata, così ponendo a base delle sue conclusioni mere ipotesi interpretative in luogo di certezze. Ciò a fronte delle diverse conclusioni cui è giunto il consulente della difesa.

Ed ancora, l’esponente osserva che l’uso della cannula di Guedel era stato ritenuto idoneo per il tipo d’intervento in corso; perciò occorreva accertare che la desaturazione ritenuta decisiva ai fini del decesso fosse stata determinata dalla mancata ossigenazione segnalata dal macchinario d’allarme, e che tale segnalazione non fosse stato preso nella dovuta considerazione dalla d.ssa S.

Infine, la ricorrente ritiene che l’invocato supplemento istruttorio avrebbe consentito di fugare ogni dubbio circa la rilevanza causale delle infezioni insorte nel reparto di terapia intensiva, in rapporto all’accertamento della concausa preesistente ravvisata nella ridotta ossigenazione della paziente durante l’intervento, in realtà durata non più di cinque minuti; in alternativa, la mancata tempestiva maggiore ossigenazione attribuita alla S. potrebbe non essere stata la sola causa del decesso e, quindi, un suo eventuale profilo di colpa sarebbe ascrivibile alla colpa lieve di cui alla L. n. 189 del 2012, art. 3.

  1. Va dato atto che all’odierna udienza il difensore delle costituite parti civili ha rassegnato conclusioni scritte e depositato nota spese.

Motivi della decisione

  1. Il ricorso è infondato.

1.1. Va in primo luogo ricordato che deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606 c.p.p. , lett. d) la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (per tutte vds. Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323, nella quale si evidenzia che la “decisività” della prova suppletiva non può riconoscersi laddove sia ravvisabile il carattere “meramente congetturale” delle conseguenze che la difesa intendeva trarre dall’assunzione di detta prova).

Deve poi aggiungersi che il carattere di “prova decisiva” è escluso, dalla giurisprudenza di legittimità, sia con riguardo al confronto (cfr. Sez. 2, n. 35661 del 16/05/2014, D’Aponte e altri, Rv. 260343), sia con riguardo all’accertamento peritale (cfr. da ultimo Sez. 2, n. 52517 del 03/11/2016, Russo, Rv. 268815).

Nella specie, l’invocato confronto fra i due consulenti (del P.m. e della difesa) doveva vertere oltretutto, secondo la prospettazione della ricorrente, su circostanze la cui decisività era tutta da dimostrare, non bastando all’uopo la semplice ipotesi – formulata nel ricorso – di un’eventuale acquisizione di elementi potenzialmente di segno diverso rispetto alla ricostruzione accolta dai giudici di merito, e tali da poter fugare i dubbi derivanti dalla diversità delle due ipotesi formulate dai consulenti di parte.

A fronte di ciò, la Corte distrettuale ha congruamente motivato il proprio convincimento, osservando che le conclusioni del consulente del P.M. si basavano su dati certi (esame necroscopico e autoptico) e pervenivano, con argomentazioni esenti da errori o vizi logici, all’accertamento della causa del decesso della R., riconducibile alla prolungata ipossia indotta nella paziente dalla condotta addebitata alla S. nel corso dell’intervento: condotta che i giudici di merito ricollegano non già all’impiego della cannula di Guedel, ma all’omesso costante controllo che le vie aeree fossero libere (controllo che, se fosse stato eseguito, non avrebbe determinato l’insorgere dell’ipossia) e al fatto che la carente ossigenazione della paziente è intervenuta, per un tempo giudicato comunque eccessivamente lungo, pur a fronte della segnalazione di tale condizione proveniente dal segnale di allarme del macchinario che controllava il livello di ossigeno del sangue.

1.2. A fronte dell’andamento affatto congetturale delle lagnanze difensive sul punto, è altresì adeguato il percorso argomentativo della Corte di merito a proposito della non idoneità interruttiva, in relazione al nesso causale tra la condotta e l’evento, delle infezioni sopraggiunte sulla paziente nel reparto di terapia intensiva: non è in sostanza configurabile, nella specie, il sopravvenire di un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria, cui la giurisprudenza annette valore interruttivo del rapporto di causalità (si veda per tutte Sez. 4, n. 25689 del 03/05/2016, Di Giambattista e altri, Rv. 267374, ove la Corte ha evidenziato come l'”infezione nosocomiale” sia uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto nei casi di non breve permanenza nei raparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo dei processi infettivi è tutt’altro che infrequente in ragione delle condizioni di grave defedazione fisica dei pazienti).

1.3. In tale quadro, appare evidente che non ha alcun pregio la prospettazione difensiva mirante all’inquadramento della condotta della S. nell’ambito della “colpa lieve”, ai fini di quanto stabilito dalla L. n. 189 del 2012, art. 3, vigente all’epoca del fatto.

Va infatti osservato, in primo luogo, che, secondo quanto si legge alle pagine 6 e 8 della sentenza impugnata, la condotta dell’imputata è stata correttamente e motivatamente qualificata come caratterizzata da “grave negligenza”: ragione per la quale è stata disattesa la richiesta di applicazione dell’anzidetta disposizione di legge.

Ma pur volendosi prescindere da tale classificazione del grado di colpa e della tipologia di condotta colposa attribuita alla S., deve rilevarsi che essa non risulterebbe in ogni caso aderente alle linee guida e/o alle buone pratiche, non solo sulla base della ricostruzione peritale accolta dalla Corte di merito, ma neppure in base alla stessa prospettazione difensiva; e che, secondo la predetta disposizione, solo il sanitario che “si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. Di tal che in nessun caso potrebbe ricondursi il caso in esame nella fattispecie abrogativa de qua.

1.4. E’ infine appena il caso di evidenziare che, in ogni caso, l’inosservanza delle linee guida e, comunque, delle buone pratiche clinico assistenziali, nonchè la (corretta) qualificazione della condotta della ricorrente come caratterizzata da “negligenza” piuttosto che da “imperizia” escluderebbero anche la configurabilità dell’ipotesi di non punibilità del fatto prevista dal nuovo art. 590-sexies c.p. (introdotto dalla L. n. 24 del 2017, art. 6), che oggi disciplina la responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie in relazione alle fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose.

  1. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al rimborso, in favore delle parti civili costituite, delle spese di giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al rimborso delle spese di giudizio in favore delle parti civili, liquidate in Euro tremila oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2017

AVVOCATO ESPERTO NAZIONALE PER CUASE MORTE OSPEDALE PER  INFEZIONE

AVVOCATO SERGIO ARMAROLI 051 6447838

BOLOGNA, MILANO, VICENZA,PADOVA, ROVIGO,NAPOLI, TREVISO ,RAVENNA FORLI CESENA