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UNIONE CIVILE CONVIVENZE BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO

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UNIONE CIVILE CONVIVENZE BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO

 

Scioglimento dell’unione civile

 

Assegno si tiene conto anche della durata della convivenza di fatto

Già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha preso in considerazione la possibilità di tenere conto della divergenza tra la durata legale del vincolo coniugale e quella della convivenza effettiva (oltre che della parziale sovrapposizione nel tempo tra il rapporto matrimoniale e la costituzione di un nuovo nucleo familiare), ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato ed il coniuge superstite, Con sentenza n. 35969 del 27 dicembre 2023, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che, in caso di scioglimento dell’unione civile, la durata del rapporto, prevista dall’art. 5, comma 6, L. n. 898 del 1970, richiamato dall’art. 1, comma 24, L. n. 76 del 2016, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all’assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell’unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 76 cit..

SEPARAZIONE BOLOGNA MOGLIE
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UNIONE CIVILE CONVIVENZE BOLOGNA AVVOCATO ESPERTO
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infedeltà coniugale separazione

Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/09/2023) 27/12/2023, n. 35969 DIVORZIO › Assegno di divorzio DIVORZIO › Pensioni Intestazione REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. D’ASCOLA Pasquale – Primo Presidente f.f. – Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere – Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere – Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere – Dott. CARRATO Aldo – Consigliere – Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere – Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere – Dott. MANCINO Rossana – Consigliere – Dott. SCARPA Antonio – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27008/2023 R.G. proposto da: A.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Maria Antonia Pili, con domicilio eletto in Roma, via Ezio, n. 24, presso lo studio dell’Avv. Chiara Pezzano; – ricorrente e controricorrente – contro B.B., rappresentata e difesa dagli Avv. Anna D’Agostino e Nicola Corteggiano, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via E. Mizzi, n. 19; – controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste n. 336/20, depositata il 22 luglio 2020. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 settembre 2023 dal Consigliere Guido Mercolino; uditi gli Avv. Maria Antonia Pili e Anna D’Agostino; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, con l’assorbimento degli altri motivi e del ricorso incidentale.

 

 

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Svolgimento del processo 1. B.B. convenne in giudizio A.A., chiedendo lo scioglimento dell’unione civile con la stessa costituita il 17 dicembre 2016, con la esclusione dell’obbligo di corrispondere un assegno alla convenuta, avuto riguardo all’autosufficienza economica della stessa. Si costituì la A.A., e non si oppose allo scioglimento dell’unione, chiedendo in via riconvenzionale il riconoscimento dell’assegno, in considerazione dello squilibrio patrimoniale e reddituale esistente con l’attrice e dell’oggettivo peggioramento delle sue condizioni economiche. 1.1. All’esito della comparizione delle parti, il Presidente del Tribunale di Pordenone, con ordinanza del 13 marzo 2019, riconobbe alla A.A. un assegno provvisorio di Euro 350,00 mensili, confermato dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza del 17 luglio 2019, a seguito del reclamo proposto dalla B.B.. 1.2. Il Tribunale di Pordenone, dopo aver pronunciato lo scioglimento dell’unione con sentenza non definitiva del 13 giugno 2019, riconobbe alla A.A.,

 

 

 

con sentenza definitiva del 29 gennaio 2020, un assegno di Euro 550,00 mensili, richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di assegno divorzile ed attribuendo rilievo assorbente alla funzione compensativa-risarcitoria, consistente nell’indennizzare l’avente diritto per la perdita di chances determinata dalla rinuncia a migliori opportunità di lavoro, in funzione dell’unità e dello svolgimento della vita familiare. 2.

 

 

L’impugnazione proposta dalla B.B. avverso la sentenza definitiva è stata accolta dalla Corte d’appello di Trieste, che con sentenza del 22 luglio 2020 ha rigettato la domanda di riconoscimento dell’assegno proposta dalla A.A. e la domanda di restituzione delle somme corrisposte dalla B.B. nel corso del giudizio. A fondamento della decisione, la Corte ha dichiarato innanzitutto utilizzabile tutta la documentazione depositata dalla convenuta nel giudizio di primo grado, ritenendone legittima la produzione, a tutela del diritto di difesa, in considerazione della mancata concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, da parte del Giudice istruttore.

 

 

Nel merito, ha reputato irrilevante il pregiudizio economico asseritamente subito dalla A.A. per effetto della scelta di privilegiare il legame affettivo con la compagna e del conseguente trasferimento della sua residenza da (Omissis), dove viveva con i genitori, a Pordenone, dove aveva intrapreso la convivenza con la B.B., nonchè delle dimissioni rassegnate dal lavoro svolto a Venezia presso la G.E.C. – Gestione Esazioni Convenzionate Spa trattandosi di eventi verificatisi in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. 20 maggio 2016, n. 76, non avente efficacia retroattiva. Ha ritenuto comunque non provato il predetto pregiudizio, osservando che l’accettazione da parte della A.A. dell’incarico di assistente tecnico a tempo determinato presso l’Istituto Superiore (Omissis) le aveva consentito di migliorare la sua posizione in graduatoria ai fini dell’assunzione a tempo indeterminato, avvenuta il 1 settembre 2018, quando il lavoro interinale da lei precedentemente svolto a Venezia era già terminato, ed ella percepiva soltanto l’indennità di disoccupazione. Precisatoche le dimissioni erano state rassegnate il 27 ottobre 2015, mentre il predetto lavoro era destinato a cessare il 31 dicembre 2015, ha escluso che, a seguito della cessione del ramo di azienda da parte della GEC alla GE.FI.L.

 

 

 

Gestione Fiscalità locale Spa la A.A. avesse la possibilità di essere assunta a tempo indeterminato, poichè ella non era mai stata dipendente della società cedente, ma aveva prestato lavoro presso la stessa in virtù di un contratto di somministrazione di lavoro concluso con l’Orienta – Agenzia per il Lavoro Spa e il contratto di cessione prevedeva il trasferimento dei soli rapporti di lavoro intrattenuti dalla società cedente con i propri dipendenti. Ha ritenuto altresì irrilevante la spesa sopportata dalla convenuta per il pagamento del canone di locazione di un alloggio, non essendo la stessa riconducibile alla scelta della coppia di convivere a Pordenone, ma trattandosi di un costo che ella avrebbe dovuto comunque sopportare in conseguenza dell’abbandono della casa dei genitori. La Corte ha escluso infine il diritto della B.B. alla restituzione delle somme versate a titolo di assegno liquidato dall’ordinanza presidenziale e dalla sentenza di primo grado, non essendo stato provato che le stesse fossero state utilizzate dalla A.A. per finalità diverse dalla soddisfazione delle sue esigenze di vita quotidiana. 3. Avverso la predetta sentenza la A.A. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. La B.B. ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, articolato in due motivi, ed anch’esso illustrato con memoria, al quale la A.A. ha resistito a sua volta con controricorso. Con ordinanza del 27 gennaio 2003, la Prima Sezione civile, investita della decisione della controversia, ha disposto la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, che ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, ai fini della risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, avente ad oggetto la possibilità di valutare, ai fini del riconoscimento dell’assegno di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, nel caso di unione civile costituita ai sensi della L. n. 76 del 2016, art. 1 e della quale sia stato pronunciato lo scioglimento, i fatti intercorsi tra le parti anteriormente all’instaurazione dell’unione civile. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la nullità della sentenzaimpugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, e art. 183 c.p.c., commi 4 e 6, osservando che, nel ritenere non provata la perdita di chances, in virtù della mancata dimostrazione della sussistenza di un rapporto di lavoro diretto con la GEC e della conseguente possibilità dell’assunzione a tempo indeterminato da parte della GEFIL, la Corte territoriale ha conferito rilievo a una questione di fatto mai sollevata dalle parti nè rilevata dal Tribunale, senza stimolare preventivamente il contraddittorio al riguardo. Premesso che il predetto pregiudizio era stato ritenuto provato dal Tribunale, il quale aveva negato la concessione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, in tal modo impedendole di dedurre mezzi istruttori, sostiene di aver ottenuto dalla GEFIL una dichiarazione, dalla quale si evince che in occasione della cessione del ramo di azienda tutti i dipendenti assunti direttamente o tramite agenzia di lavoro interinale erano stati convocati per un colloquio individuale, ai fini dell’inserimento nell’organico dell’azienda, cui essa ricorrente aveva rinunciato per motivi personali e logistici. 2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, e dell’art. 11 preleggi, comma 1, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto irrilevanti, ai fini del riconoscimento dell’assegno, gli eventi verificatisi in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 76 cit., senza considerare che gli elementi comprovanti la perdita di chances da lei subita costituivano meri presupposti di fatto, valutabili indipendentemente dalla loro collocazione temporale. 3. Con il terzo motivo, la ricorrente insiste sulla violazione e la falsa applicazione della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, e della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, affermando che, nell’escludere la rilevanza dei predetti eventi, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della circostanza che, anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 76 cit., era preclusa alle coppie dello stesso sesso la possibilità di costituire un’unione avente effetti legali. Premesso che la predetta esclusione si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. e con l’art. 21 della CDFUE, comportando una disparità di trattamento rispetto alle coppie di sesso diverso, sostiene che una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della medesima legge impone di conferire rilievo anche alle scelte operate dai contraenti nel periodo anteriore, qualora le stesse producano effetti sull’applicazione delle nuove norme. Aggiunge che nella specie la costituzione dell’unione civile aveva rappresentato la formalizzazione di un rapporto già connotato da stabilità affettiva, convivenza ed assistenza reciproca, fin dal momento in cui essa ricorrente si era trasferita a Pordenone presso la B.B., abbandonando i rapporti affettivi, sociali e lavorativi precedentemente intrattenuti. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevando che, nel negare il riconoscimento dell’assegno, la Corte d’appello non ha tenuto conto della funzione non solo compensativa-risarcitoria, ma anche assistenziale dello stesso, avendo omesso di valutare lo squilibrio reddituale e patrimoniale esistente tra le parti e l’inidoneità del suo reddito a garantirle una vita dignitosa. Sostiene in particolare che la sentenza impugnata non ha tenuto conto dei costi che essa ricorrente ha dovuto sopportare per effetto della cessazione della convivenza con la B.B., avendo dovuto affrontare, a causa della mancanza di un’abitazione, la spesa per il reperimento di un alloggio a Pordenone, laddove, prima dell’instaurazione della convivenza, poteva fruire dell’abitazione messa a sua disposizione dai genitori in (Omissis). 5. Con il primo motivo del ricorso incidentale, la controricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 116 e 132 c.p.c. e degli artt. 2033 e 2034 c.c., osservando che, nell’escludere la ripetibilità delle somme da lei versate in esecuzione dell’ordinanza presidenziale e della sentenza di primo grado, la Corte territoriale è incorsa in contraddizione, avendo per un verso negato l’inadeguatezza delle risorse economiche di cui disponeva la A.A. e per altro verso ritenuto non provato che le somme versate fossero state destinate a fini diversi dalla soddisfazione delle sue esigenze di vita quotidiana. 6. Con il secondo motivo, la controricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver disposto la compensazione delle spese processuali, in considerazione della novità della questione trattata, senza tenere conto della coincidenza della stessa con quelle ordinariamente esaminate nei giudizi aventi ad oggetto lo scioglimento del matrimonio, della tendenziale parificazione tra la disciplina dettata per le unioni omosessuali e quella prevista per le unioni eterosessuali e dell’identità dei principi applicati. 7. Il primo motivo del ricorso principale, con cui si va valere la violazione del principio del contraddittorio, in relazione alla mancata concessione della possibilità di controdedurre in ordine all’insussistenza del pregiudizio derivante dalla perdita di chances, è infondato. Nell’affermare la mancanza dei presupposti per l’assunzione a tempo indeterminato della ricorrente da parte della GEFIL, cessionaria del ramo di azienda della GEC, la Corte d’appello non ha affatto rilevato d’ufficio una questione non sollevata dalle parti e idonea a modificare il quadro fattuale della controversia, ma si è limitata a dare atto di una circostanza emergente dalla documentazione prodotta dalla stessa ricorrente (la natura meramente indiretta del rapporto intercorrente tra la GEC e la A.A., che operava alle dipendenze di un’agenzia di lavoro interinale), desumendone l’insussistenza del pregiudizio da quest’ultima lamentato in relazione al trasferimento della sua residenza da Venezia a Pordenone ed alla conseguente risoluzione del rapporto di lavoro intrattenuto con la GEC. Non può quindi ritenersi configurabile, nel caso in esame, una violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, la quale, postulando il rilievo d’ufficio di una questione che implichi la valorizzazione di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato, che avrebbero dovuto essere allegati dalle parti, non può ritenersi sussistente nell’ipotesi in cui, come nella specie, il giudice si sia limitato ad esercitare il proprio prudente apprezzamento in ordine al materiale probatorio acquisito agli atti, accertando che la situazione di fatto risulta diversa da quella prospettata a sostegno delle rispettive domande o eccezioni (cfr. Cass., Sez. VI, 6/11/2013, n. 24861). Nel lamentare la mancata concessione della possibilità di provare la sussistenza dei predetti presupposti, a causa dell’omessa fissazione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. da parte del Giudice di primo grado, la ricorrente non considera d’altronde che, a seguito della sentenza non definitiva con cui fu pronunciato lo scioglimento dell’unione civile, il Tribunale fissò un apposito termine per la produzione di documenti, cui la ricorrente provvide in parte tempestivamente, in parte soltanto con la comparsa conclusionale. Poichè, ciò nonostante, la Corte d’appello ha ritenuto ammissibile l’intera documentazione prodotta dalle parti, a tutela del diritto di difesa, deve escludersi che la mancata fissazione dei termini di cui all’art. 183 c.p.c. abbia arrecato alcun pregiudizio alla ricorrente, la cui documentazione, ivi compresa quella tardivamente prodotta, ha costituito interamente oggetto di valutazione da parte della sentenza impugnata. 8. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto volti a far valere, sotto profili diversi, l’omessa valutazione del periodo di convivenza di fatto anteriore alla costituzione dell’unione civile, sono invece fondati. Nel disporre la trasmissione degli atti alla Prima Presidente, la Prima Sezione civile ha osservato che le censure proposte con il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale involgono la soluzione della questione, avente carattere prioritario, riguardante la rilevanza, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno in favore del componente dell’unione civile ai sensi del combinato disposto della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, e della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, di circostanze fattuali anteriori all’entrata in vigore della L. n. 76 cit., idonee ad incidere sull’assegno divorzile in ragione delle diverse componenti (assistenziale e perequativo-compensativa) assegnate a tale contributo dal diritto vivente consolidatosi a partire dall’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18287). Ha rilevato infatti che, secondo la ricorrente, le scelte da lei compiute anteriormente alla costituzione dell’unione civile per favorire la prosecuzione del rapporto affettivo già instaurato con la controricorrente, in quanto incidenti sulla sua situazione economica, dovrebbero essere tenute in conto ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno, sia perchè la posteriorità dell’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016 non impedirebbe la valutazione di elementi fattuali pregressi, sia perchè un’interpretazionedi segno contrario comporterebbe effetti palesemente discriminatori a danno delle coppie omosessuali, alle quali, in epoca anteriore all’entrata in vigore della predetta legge, non era consentito di formalizzare giuridicamente un’unione stabile. Tale questione, ad avviso del Collegio rimettente, dev’essere inquadrata nella situazione determinatasi a seguito della sentenza della Corte EDU 21 luglio 2015, Oliari c. Italia, la quale affermò che lo Stato italiano aveva violato l’art. 8 della CEDU, per non aver ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali, in tal modo aprendo la strada all’approvazione della legge sulle unioni civili, sollecitata anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 138 dl 2010. Alla stregua di tale contesto, occorre innanzitutto verificare se il rinvio alla disciplina dell’assegno divorzile, contenuto nella L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, debba essere inteso nel senso che il legislatore abbia voluto rapportare gli effetti patrimoniali dell’unione unicamente al periodo in cui la stessa si è svolta, deliberatamente tralasciando tutto ciò che ha riguardato il periodo antecedente, pur se caratterizzato dalla preesistenza di una relazione affettiva, oppure nel senso che il legislatore non abbia voluto prendere in considerazione tale aspetto, lasciando all’interprete la valutazione in ordine agli effetti della nuova norma attraverso il rinvio a quella dettata in materia di divorzio. Occorre altresì stabilire se la normativa sopravvenuta consenta di valorizzare i fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore, conformemente all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il principio di irretroattività non esclude l’applicabilità della legge ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o venute in essere dopo la sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando gli stessi, ai nuovi fini, debbano essere presi in considerazione in sè stessi, indipendentemente dal collegamento con il fatto che li ha generati. Occorre infine valutare se l’interpretazione che si riterrà di adottare possa produrre un effetto contrario alla protezione offerta dalla CEDU, risolvendosi in una discriminazione a danno dei medesimi soggetti che la nuova legge intende tutelare, attraverso la limitazione dei relativi effetti al periodo successivo alla sua entrata in vigore. 9. Per una corretta impostazione delle questioni sollevate dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, che nel disciplinare lo scioglimento delle unioni civili dichiara applicabili, in quanto compatibili, la L. n. 898 del 1970, art. 4, art. 5, comma 1, e dal comma 5 al comma 11, artt. 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies nonchè le disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile ed al D.L. 12 settembre 2014, n. 132, artt. 6 e WOLTERS KLUWER ONE LEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. 8 Gennaio 2024 pag. 5 12 convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162. Tra le norme richiamate, viene in rilievo, nel caso in esame, della L. n. 898 del 1970, art. 5, il comma 6 il quale prevede, in riferimento al divorzio, che ” il tribunale, tenutoconto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. 9.1. Nelle sue conclusioni, il Procuratore generale ha sostenuto che il riferimento alla durata del matrimonio, contenuto nell’art. 5, comma 6, cit., non può considerarsi idoneo a giustificare l’estensione della valutazione finalizzata al riconoscimento dell’assegno al periodo di convivenza anteriore alla costituzione dell’unione civile, non trattandosi di un presupposto previsto per l’attribuzione dell’assegno divorzile, ma di un criterio incidente esclusivamente sulla sua quantificazione, e rilevante, in particolare, sotto il profilo perequativo-compensativo, nel senso che, al di fuori delle ipotesi in cui la durata del rapporto sia stata talmente breve da impedire l’instaurazionedi un’effettiva comunione materiale e spirituale, tale elemento può venire in considerazione esclusivamente ai fini della valutazione del sacrificio delle aspettative professionali di uno dei coniugi, eventualmente derivante da scelte di vita concordate, volte a privilegiare il suo apporto alla vita familiare. Ha aggiunto che un ampliamento in via interpretativa dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile si porrebbe in contrasto non solo con la tassatività della relativa elencazione, ma anche con la L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 65, il quale prende in considerazione l’esistenza di una comunione di vita extramatrimoniale ai soli fini del riconoscimento di un assegno temporaneo e di natura meramente alimentare, in favore del convivente di fatto che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, e con il comma 50 del medesimo articolo, che rimette ai conviventi di fatto la scelta di disciplinare contrattualmente gli aspetti patrimoniali del rapporto, concordando la ripartizione dei ruoli e le rispettive contribuzioni, anche in funzione di una possibile crisi della convivenza. 9.2. La predetta ricostruzione dei presupposti e dei criteri di liquidazione dell’assegno divorzile non risulta tuttavia pienamente corrispondente al quadro emergente dalla giurisprudenza di legittimità, assegnando alla durata del matrimonio una portata recessiva, quanto meno ai fini dell’attribuzione dello assegno, che non trova riscontro nei principi enunciati dalle più recenti pronunce di queste Sezioni Unite. In proposito, pare opportuno richiamare le considerazioni svolte nella sentenza dell’11 luglio 2018, n. 18287, che, nel comporre il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità relativamente all’individuazione dei criteri di attribuzione e determinazionedell’assegno divorzile, è pervenuta al superamento non solo dell’orientamento precedentemente consolidatosi, che assegnava al contributo in questione una funzione eminentemente assistenziale, individuandone il presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi a disposizionedel coniuge istante, da intendersi come insufficienza degli stessi a garantire la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e relegando gli altri parametri previsti dalla prima parte della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, al ruolo di semplici criteri per la determinazione del quantum (cfr. per tutte Cass., Sez. Un., 29/11/1990, n. 11490), ma anche dell’orientamento successivamente manifestatosi, che pur avendo sostituito il pregresso tenore di vita del nucleo familiare con la mancanza di autosufficienza economica dell’istante, quale parametro di riferimento per la valutazione dell’inadeguatezzadei mezzi, aveva confermato che soltanto all’esito di tale valutazione potevano essere presi in considerazione gli altri criteri, in funzione esclusivamente determinativa ed ampliativa del quantum (cfr. Cass., Sez. I, 10/05/2017, n. 11504). Nella predetta sentenza, queste Sezioni Unite hanno infatti abbandonato la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in favore di un’interpretazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ritenuta più coerente con i principi costituzionali di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità: ribadito il carattere intrinsecamente relativo del parametro della inadeguatezza, hanno affermato che l’applicazione della norma richiede una valutazione fondata innanzitutto sulle condizioni economico-patrimoniali delle parti, da collegare causalmente con gli altri indicatori previsti dalla prima parte dell’art. 5, comma 6, al fine di accertare se l’eventuale squilibrio esistente all’atto dello scioglimento del vincolo dipenda dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti, in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare; nell’ambito di tale verifica, è stato riconosciuto un ruolo di cruciale importanza alla durata del rapporto, quale fattore di valutazione del contributo fornito da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e di quello dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali sussistenti al momento della cessazione del vincolo (cfr. nel medesimo senso, Cass., Sez. I, 23/01/2019, n. 1882). Tale fattore è destinato dunque ad operare non soltanto in senso limitativo, escludendo il diritto all’assegno o consentendone la riduzione al di sotto del livello correlato alla valutazione comparativa tra i redditi e le sostanze dei coniugi, ma anche in senso ampliativo, giustificandone il riconoscimento anche a fronte dell’autosufficienza economica dell’istante, ove lo squilibrio economico-patrimoniale rilevabile all’epoca della cessazione del rapporto appaia causalmente riconducibile alle scelte compiute in funzione della costituzione del nucleo familiare e della soddisfazione delle esigenze comuni e di quelle dell’altro coniuge. Il risalto conferito alla durata del vincolo ed alle scelte compiute dai coniugi, strettamente collegato proprio al riconoscimento della funzione non solo assistenziale, ma anche perequativa-compensativa dell’assegno divorzile, comporta un’indubbia valorizzazionedel profilo fattuale del rapporto familiare, che ha trovato seguito in altre pronunce di questa Corte, prima tra tutte quella che, in tema di divorzio, ha affermato che il riconoscimento della efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ma prima che sia divenuta definitiva la successiva decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di divorzio, e non ne impedisce pertanto la prosecuzione ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno (cfr. Cass., Sez. Un., 31/03/2021, n. 9004): premesso infatti che il fondamento giuridico dell’obbligo di corrispondere l’assegno deve essere individuato “nella constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonchè della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi”, è stato precisato che “tale accertamento non inerisce allo atto costitutivo del vincolo coniugale, ma allo svolgimento di quest’ultimo nella sua effettività, contrassegnata dalle vicende concretamente affrontate dai coniugi come singoli e dal nucleo familiare nel suo complesso, anche nella loro dimensione economica, la cui valutazione trova fondamento, a livello normativo, nei criteri indicati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6”. La valorizzazione delle concrete modalità di svolgimento della vita familiare comporta indubbiamente un ridimensionamento della rilevanza esclusiva attribuita alla durata legale del matrimonio, quale criterio di selezione delle vicende da prendere in considerazione ai fini del riconoscimento e della quantificazione dell’assegno, aprendo la strada ad una più ampia valutazione dei rapporti intercorsi tra i coniugi, nell’ambito della quale occorre tenere conto delle scelte da questi ultimi compiute in funzione della realizzazione di una comunione materiale e spirituale non solo in costanza di matrimonio, ma anche anteriormente all’instaurazione del vincolo coniugale, ove le stesse appaiano idonee ad incidere sulla concreta ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia, nonchè, per il carattere duraturo delle loro conseguenze e per il momento in cui si verifica lo scioglimento del matrimonio, a proiettare i loro effetti anche sulla situazione economico-patrimoniale di ciascuno dei coniugi in epoca successiva. Tale allargamento della prospettiva trova d’altronde giustificazione nella constatazione dei mutamenti intervenuti nella realtà sociale, caratterizzata ormai da un’ampia diffusione di forme più o meno stabili di convivenza di fatto, quale esperienza di vita prodromica all’instaurazionedel vincolo coniugale, e dalla conseguente anticipazione delle predette scelte al periodo di tempo anteriore alla celebrazione del matrimonio, la quale viene pertanto a conferire, in un numero crescente di casi, un crisma formale ad un’unione familiare già costituitasi e consolidatasi nei fatti, magari anche con la nascita di figli, la cui successiva dissoluzione non consente di trascurare, nella regolazione dei relativi effetti economici, le rinunce ed i sacrifici compiuti dalle parti in vista del perseguimento di obiettivi comuni e l’apporto da ciascuna di esse fornito alla realizzazione delle aspirazioni individuali ed alla formazione e all’accrescimento del patrimonio dell’altra, nonchè i benefici che quest’ultima ne ha tratto in termini sia personali che economico-professionali. 9.3. Tale processo di emersione della convivenza di fatto, quale modello familiare non necessariamente alternativo all’unione fondata sul vincolo matrimoniale, ma ad essa variamente collegato, ha trovato riconoscimento anche in una recente pronuncia di queste Sezioni Unite che, nell’esaminare gli effetti della costituzione di un nuovo nucleo familiare ai fini della persistenza dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile, in caso di scioglimento di un precedente matrimonio, ha già avuto modo di evidenziare la natura composita della realtà sociale (caratterizzata dalla coesistenza di modelli familiari diversi, la cui pari dignità, fondata sulla Costituzione, è stata ritenuta meritevole di tutela, indipendentemente dall’esistenza di un vincolo coniugale) e la conseguente esigenza di una disciplina più attuale e maggiormente satisfat-tiva degli interessi coinvolti nella regolamentazione delle ricadute patrimoniali della crisi coniugale (cfr. Cass., Sez. Un., 5/11/2021, n. 32019). Pur essendo stato confermato che la situazione di convivenza non è pienamente assimilabile al matrimonio, nè sotto il profilo della stabilità nè sotto quello delle tutele offerte al convivente sia nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto, si è riconosciuto che, in quanto “espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, cui corrisponde anche un’assunzione di responsabilità” verso il partner e il nucleo familiare, l’instaurazione di una stabile convivenza comporta la formazione di unnuovo progetto di vita con il compagno o la compagna, “dai quali si ha diritto di pretendere, finchè permanga la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quale adempimento di un’obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto (come attualmente previsto dalla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37), anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale”: per tale ragione, si è ritenuto che l’instaurazione di una stabile convivenza da parte dell’ex coniuge avente diritto all’assegno divorzile comporti l’estinzione, anche per il futuro, del diritto alla componente assistenziale di tale contributo, anche se il nuovo nucleo familiare di fatto abbia un tenore di vita non paragonabile al precedente, fermo restando il diritto alla componente compensativa, a meno che la stessa non abbia trovato già soddisfazione all’interno del matrimonio, con la scelta del regime patrimoniale o con gli accordi intervenuti al momento del divorzio. Sotto un diverso profilo, già da tempo la giurisprudenza di legittimità ha preso in considerazione la possibilità di tenere conto della divergenza tra la durata legale del vincolo coniugale e quella della convivenza effettiva (oltre che della parziale sovrapposizione nel tempo tra il rapporto matrimoniale e la costituzione di un nuovo nucleo familiare), ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato ed il coniuge superstite, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3: com’è noto, infatti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 1999 e dell’ordinanza n. 491 del 2000, con cui fu dichiarata infondata la questione di legittimità della predetta disposizione, nella parte in cui prevedeva, quale criterio di ripartizione, la “durata del rapporto”, questa Corte ha ammesso la possibilità di prendere in considerazione ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali il periodo di convivenza prematrimoniale coevo al periododi separazione che precede il divorzio, ancorchè in tale lasso temporale permanga il vincolo coniugale (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 23/07/2021, n. 21247 ; Cass., Sez. lav., 28/04/2020, n. 9263; Cass., Sez. VI, 26/02/2020, n. 5268). Muovendo dall’affermazione del Giudice delle leggi, secondo cui la predetta locuzione impone di tenere conto dell’elemento temporale, la cui valutazione non può mai mancare, ma non attribuisce allo stesso una rilevanza esclusiva, tale da ridurre la ripartizione ad un mero calcolo aritmetico, consentendo invece di prendere in considerazione altre circostanze analoghe a quelle da valutare per la definizione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi divorziati, e pur ribadendosi la diversità tra la famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio, si è riconosciuta alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza correttiva dei risultati derivanti dall’applicazione del predetto criterio, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale. 9.4. Può quindi concludersi che nella giurisprudenza di legittimità risulta già ampiamente presente il riconoscimento dell’unione di fatto quale modello di relazione familiare dalla cui instaurazione scaturiscono a carico dei conviventi obblighi di solidarietà morale e materiale destinati a riflettersi anche su quelli derivanti dal matrimonio, non solo nel senso di determinare l’estinzione o l’affievolimento del diritto all’assegno, in caso di coesistenza dei due rapporti, ma anche nel senso di giustificare una diversa valutazione della durata del vincolo coniugale, ove la costituzione dello stesso abbia fatto seguito, senza soluzione di continuità, ad un periodo di convivenza avente connotati di stabilità tali da consentire di ritenere che il matrimonio abbia rappresentato la formalizzazione di un rapporto già consolidato nella sua effettività. Quanto poi alla possibilità di estendere gli esiti di tale approccio ermeneutico alle unioni civili, non merita consenso la tesi sostenuta nelle conclusioni del Procuratore generale, secondo cui, nel caso in cui la costituzione dell’unione sia stata preceduta da un periodo di stabile convivenza, l’estensione a quest’ultima della valutazione finalizzata al riconoscimento dell’assegno dovrebbe ritenersi preclusa dalla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 65 il quale, nel disciplinare la cessazione della convivenza di fatto, limita l’obbligo di solidarietà dell’ex convivente alla corresponsione degli alimenti in favore dell’altro convivente che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Tale disposizione, dalla quale il Pubblico Ministero ritiene condivisibilmente di poter desumere la volontà del legislatore di escludere qualsiasi equiparazione della convivenza di fatto non solo rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, ma anche rispetto all’unione civile, non è applicabile alla fattispecie in esame, riferendosi a quella, radicalmente diversa, in cui, indipendentemente dalle eventuali intenzioni dei conviventi, la convivenza di fatto si concluda senza che si sia proceduto alla formalizzazione del vincolo: altro è, infatti, il caso in cui il nucleo familiare costituito in via di fatto si dissolva per effetto del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita instauratasi tra i conviventi, i quali scelgano di non dare ulteriore seguito alla loro relazione affettiva, altro è quello in cui tale comunione permanga ed anzi si rafforzi, per effetto della scelta consapevole e volontaria dei conviventi di conferire alla loro relazione una veste formale, fonte di conseguenze diverse in caso di successivo scioglimento dell’unione. Come correttamente osservato in dottrina, la convivenza che sfoci nel matrimonio (ma il ragionamento non potrebbe essere diverso in riferimento a quella che conduca alla costituzione di un’unione civile) non può essere considerata come tutte le altre, in quanto, guardandola in modo retrospettivo, partecipa della natura del vincolo che l’ha seguita, la cui assunzione testimonia la volontà delle parti non solo d’impegnarsi reciprocamente per il futuro,a fronte dell’intrinseca precarietà del mero rapporto di fatto, ma anche di dare continuità alla vita familiare pregressa, inglobandone l’organizzazione all’interno delle condizionidi vita del matrimonio o dell’unione civile. Per analoghe ragioni, deve ritenersi inconferente il richiamo all’art. 1 cit., comma 50 e comma 52, lett. b), che consentono ai conviventi di fatto di disciplinare con un apposito contratto i rapporti di fatto relativi alla loro vita in comune e le modalità di contribuzione alle relative necessità, in relazione alle rispettive sostanze e alla loro capacità di lavoro professionale o casalingo: la mera circostanza che, in mancanza di una regolamentazione estesa anche agli aspetti economico-patrimoniali di una possibile crisi del nucleo familiare, l’accordo raggiunto tra le parti in ordine alla ripartizione dei ruoli all’interno del nucleo familiare ed alle rispettive contribuzioni sia destinato a perdere efficacia in caso di cessazione della convivenza, non consente di ritenere che i predetti profili risultino irrilevanti anche in caso di prosecuzione della stessa sotto la veste formale del matrimonio o dell’unione civile, soprattutto qualora, come accade normalmente, alla formalizzazione del rapporto non abbiano fatto riscontro significativi mutamenti nell’organizzazione familiare e nelle condizioni di vita dei conviventi. 9.5. L’ultimo aspetto della questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria riguarda la possibilità di tenere conto, ai fini del riconoscimento dell’assegno in caso di scioglimento dell’unione civile, del periodo di convivenza che ne abbia preceduto la costituzione, ove lo stesso risalga in tutto o in parte ad osta invece all’applicazione della nuova legge ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorchè conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sè stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, dimodochè resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore (cfr. tra le altre, Cass., Sez. III, 2/08/2016, n. 16039; Cass., Sez. I, 3/07/2013, n. 16620 ; Cass. Sez. lav., 3/03/2000, n. 2433). 9.6. Qualora, d’altronde, come nella specie, la controversia abbia ad oggetto lo scioglimento di un’unione civile costituita da persone del medesimo sesso, l’esclusione della possibilità di prendere in considerazione, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell’assegno, il periodo di convivenza che ha preceduto l’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016 comporterebbe la frustrazione delle finalità perseguite dalla medesima legge, impedendo di tenere conto delle scelte (spesso determinanti anche per il futuro) compiute dalle parti nella fase iniziale del rapporto, in cui la convivenza ha dovuto necessariamente svolgersi in via di mero fatto per causa ad esse non imputabile, essendo all’epoca preclusa alle coppie omosessuali la possibilità di contrarre un vincolo formale. In proposito, come correttamente osservato dalla Prima Sezione civile nell’ordinanza interlocutoria, occorre tenere conto anche della genesi della disciplina delle unioni civili, collegata alla sentenza della Corte EDU 21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia, con cui fu accertato che lo Stato italiano aveva violato l’art. 8 della CEDU, sotto il profilo del diritto al rispetto della vita privata e familiare, per non avere ancora provveduto all’emanazione di una normativa diretta ad attribuire un riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali attraverso la previsione di forme di unione civile o di unione registrata. Richiamata la propria giurisprudenza, secondo cui le coppie omosessuali hanno la stessa capacità d’instaurare una relazione stabile di quelle eterosessuali e si trovano in una situazione simile per quanto riguarda l’esigenza di riconoscimento giuridico e tutela della loro relazione, la Corte osservò che l’impossibilità di accedere ad un quadro giuridico come quello delle unioni civilio delle unioni registrate impediva alle stesse di ottenere il riconoscimento del loro status e la tutela di alcuni diritti, ritenendo insufficiente, a tal fine, la mera possibilità di disciplinare alcuni aspetti della convivenza mediante accordi contrattuali privati; pur riconoscendo che, in assenza di un accordo tra gli Stati membri, il legislatore nazionale gode di un certo margine di discrezionalità nella determinazione dell’esatto status conferito da mezzi di riconoscimento alternativi e dei diritti e gli obblighi che ne scaturiscono, ritenne che il Governo italiano avesse ecceduto tale margine, non avendo tenuto conto della diffusa accettazione delle coppie omosessuali da parte della popolazione italiana e delle sollecitazioni al riconoscimento delle stesse provenienti dalle supreme autorità giudiziarie interne, e non avendo dedotto l’esistenza di un interesse collettivo prevalente rispetto a quello dei ricorrenti. Tali principi hanno trovato conferma nella successiva sentenza del 14 dicembre 2017, Orlandi e altri c. Italia, con cui, a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016, la Corte EDU ha dichiarato che lo Stato italiano aveva violato l’art. 8 della CEDU, sotto il profilo del rispetto del diritto alla vita familiare, per aver rifiutato, nel periodo anteriore all’entrata in vigore della disciplina delle unioni civili, la trascrizione del vincolo coniugale contratto all’estero da coppie omosessuali, anche in forma diversa dal matrimonio: premesso che la nuova disciplina, consentendo alle persone che abbiano contratto matrimonio, unione civile o altra corrispondente unione all’estero di ottenere la trascrizione del vincolo in Italia, sembra offrire più o meno la stessa tutela del matrimonio in ordine alle esigenze fondamentali di una coppia che ha una relazione stabile e seria, la Corte ha ritenuto che il rifiuto di trascrivere il matrimonio sotto qualsiasi forma avesse lasciato i ricorrenti in una situazione di vuoto giuridico, impedendo agli stessi di ottenere il riconoscimento formale dell’esistenza giuridica della loro unione ed ostacolandoli nella vita quotidiana, senza che a giustificazione di tale situazione fosse stata addotta la sussistenza di interessi collettivi prevalenti. Le considerazioni svolte a sostegno delle predette decisioni trovano peraltro ampio riscontro nella giurisprudenza precedente e successiva della Corte EDU, la quale, dopo aver affermato che la nozione di “famiglia” di cui all’art. 8 della CEDU non è limitata alle sole relazioni fondate sul matrimonio, ma si estende anche ai legami familiari di fatto, in cui le parti convivono al di fuori del matrimonio (ovvero senza essere coniugate) (cfr. sent. 18/12/1986, Johnston e altri c. Irlanda; 3/04/2012, Van der Heijden c. Paesi Bassi), ha chiarito che in tale nozione deve ritenersi compresa anche una coppia omosessuale che vive una relazione stabile (cfr. sent. 7/11/2013, Vallianatos e altri c. Grecia; 19/02/2013, X e altri c. Austria; 24/06/2010, Schalk e Kopf c. Austria), la quale si trova in una situazione sostanzialmente analoga a quella di una coppia eterosessuale, per quanto riguarda la necessità di un riconoscimento formale e di una tutela della relazione (cfr. sent. 13/07/2021, Fedo-tova e altri c. Russia); precisato inoltre che gli Stati membri hanno l’obbligo positivo di garantire il rispetto dei diritti previsti dall’art. 8, anche nei rapporti tra privati (cfr. sent. 5/09/2017, Barbulescu c. Romania), è stata riconosciuta agli stessi, ai sensi dell’art. 14 della CEDU, in combinato disposto con l’art. 8, la facoltà di limitare l’accesso al matrimonio alle sole coppie eterosessuali (cfr. 24/06/2010, Schalk e Kopf c. Austria; 9/06/2016, Chapin e Charpentier c. Francia), affermandosi tuttavia che l’intenzionedi creare una vita familiare può, in casi eccezionali, rientrare nell’ambito della tutela assicurata dall’art. 8, specialmente nel caso in cui il fatto che la vita familiare non sia ancora pienamente instaurata non sia imputabile al ricorrente (cfr. sent. 22/06/ 2004, Pini e altri c. Romania; 30/07/2016, Taddeucci e McCall c. Italia). Nella prospettiva emergente dalle predette pronunce, improntata all’osservanza degli obblighi positivi che scaturiscono dal rispetto del diritto alla vita familiare, negare rilevanza alla convivenza di fatto tra persone del medesimo sesso, successivamente sfociata nella costituzione di un’unione civile, per il solo fatto che la relazione ha avuto inizio in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016, si tradurrebbe inevitabilmente in una violazione dell’art. 8 della CEDU, oltre che in un’ingiustificata discriminazione a danno delle coppie omosessuali, il cui proposito di contrarre un vincolo formale non ha potuto concretizzarsi se non a seguito dell’introduzione della disciplina delle unioni civili, a causa della precedente mancanza di un quadro giuridico idoneo ad assicurare il riconoscimento del relativo status e dei diritti ad esso collegati. 9.7. In conclusione, la questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria può essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto: “In caso di scioglimento dell’unione civile, la durata del rapporto, prevista dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiamato dalla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 25, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all’assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell’unione, ancorchè lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 76 cit.”. Alla stregua di tale principio, non può condividersi la sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso la possibilità di tenere conto, ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno in favore della ricorrente, della perdita di chan-ces da quest’ultima asseritamente subìta a causa del trasferimento da Venezia a Pordenone e delle scelte professionali compiute in funzione dell’instaurazione del rapporto familiare con la controricorrente, in quanto risalenti all’epoca in cui fu intrapresa la convivenza di fatto con quest’ultima, anteriore sia alla costituzione dell’unione civile che all’entrata in vigore della L. n. 76 del 2016, non avente portata retroattiva e, ad avviso della Corte territoriale, non recante una disciplina specifica della fattispecie. 10. La sentenza impugnata va pertanto cassata, in accoglimento del secondo e del terzo motivo del ricorso principale, con il rinvio della causa alla Corte d’appello di Trieste, la quale dovrà procedere, in diversa composizione, ad un nuovo accertamento dei presupposti necessari per il riconoscimento dell’assegno, da valutarsi in relazione alla diversa prospettiva temporale segnata dall’estensione della durata del rapporto al periodo di convivenza che ha preceduto la costituzione dell’unione civile. Restano conseguentemente assorbiti il quarto motivo, avente ad oggetto l’accertamento dei presupposti necessari per il riconoscimento dell’assegno, ed il ricorso incidentale, riguardante la ripetizione delle somme corrisposte nel corso del giudizio ed il regolamento delle spese processuali. Il Giudice di rinvio provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo ed il terzo, dichiara assorbito il quarto motivo ed il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalitàe degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza. Conclusione Così deciso in Roma, il 26 settembre 2023. Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2023

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